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distrazione 610di Angelo Cannatà
Non c’è spazio in prima pagina per il processo di Palermo. C’era da aspettarselo. Quando Nino Di Matteo titolò il suo libro Collusi, Rizzoli, aveva in mente (anche) i comportamenti di certa stampa che oggi quasi ignora i 90 anni di carcere richiesti dai pm per Mori, Dell’Utri, Mancino… nonostante dicano molto sul 47% di astenuti: la gente non va a votare anche per il ribrezzo prodotto dalla politica collusa con la mafia. In aula Di Matteo è stato chiaro: “Hanno detto che ci siamo mossi per finalità eversive, nessuno ci ha difeso. Abbiamo cercato solo la verità”. È questo il punto. La verità fa paura. Nel libro ricorda l’incontro col collaboratore di giustizia Cancemi: “Ho scoperto allora – dice – il vero volto della mafia”: la sua potenza sta nel legame con la politica. Ecco. Quel legame ora è mostrato in tribunale con documenti, testimonianze, intercettazioni, ma non basta ai giornaloni per uno scatto d’indignazione. A marzo si vota. La verità è che sulla trattativa Stato-mafia è stato creato un clima ostile (“Ancora questa trattativa!…”). Subito dopo le stragi “sembrava iniziata una rivolta contro la mafia, a tutti i livelli”. Adesso c’è un riflusso “una sorta di fastidio nei confronti delle indagini” (pp. 23-24). La strada è piena d’ostacoli: troppe liste con impresentabili e mafiosi. Poi, però, sempre pronti a partecipare ai funerali dei morti ammazzati. L’ipocrisia è dominante.
Anche dopo le richieste di condanna della procura di Palermo, si fa finta di nulla. Nel libro Di Matteo afferma: “La condotta che contestiamo ai politici è di aver assunto il ruolo di cinghia di trasmissione tra Cosa Nostra e il governo… concorrendo al ricatto della mafia” (p. 109). Oggi, dopo 210 udienze tenute dalla Corte d’assise di Palermo, queste accuse sono prove e documenti sottoposti alla corte giudicante; vedremo se la verità processuale s’avvicinerà alla verità storica: il coraggio dei giudici ha sempre un peso nei processi, ancor più quando si tratta di giudicare pezzi dello Stato. Restano vere le parole di Di Matteo: “Cosa Nostra non verrà sconfitta fino a quando ci sarà anche un solo mafioso che trova nella politica la disponibilità al compromesso” (p. 114). Quanti compromessi, oggi, alla vigilia delle elezioni? Di Forza Italia meglio non dire: amoreggia con l’illegalità. Fanno impressione i candidati Pd in Campania: Piero De Luca, imputato per bancarotta fraudolenta; Del Basso De Caro, indagato per tentata concussione e voto di scambio; Avossa, imputata per abuso d’ufficio; Marrazzo, imputato per peculato; D’Agostino, imputato per presunte mazzette; Alfieri, definito da De Luca ‘uomo delle clientele come Cristo comanda’…”. È questo il punto. Si continua a pensare che i voti non puzzino ma il tanfo si sente. Senza pudore molti giornalisti la definiscono ancora la “cosiddetta” Trattativa, sono cauti mentre sbattono la faccia ogni giorno sugli infiniti accordi tra mafia e politica. Va detto con chiarezza: la Trattativa degli anni 90 è stata possibile per i legami storici tra mafia e politica; la Trattativa è figlia di un rapporto perverso – antico e permanente – che è sotto gli occhi di tutti: in Sicilia i dem preferiscono il nipote del boss al dirigente vittima della mafia. Non si vuol vedere che inciuciare con la mafia significa legittimare la violenza: “Abbiamo ricostruito il puzzle – dice Teresi – e alcune tessere erano sporche di sangue”. Si può andare a votare senza tenere in mente questa vergogna? Sebastiano Messina, sempre attento ad anteporre l’aggettivo “cosiddetta” alla parola Trattativa, è molto preoccupato (Repubblica, 30 gennaio) della purezza perduta dei 5Stelle, non sopporta l’orribile frase di Di Maio: “I cittadini nelle istituzioni e al governo del Paese”. Chiedo, al cavaliere della nobile coscienza, “il nipote del boss Navarra al governo del Paese” va meglio?

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 31 gennaio 2018

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