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chinnici rocco 610di Jean Georges Almendras
Sono stato varie volte a Capaci, nel punto esatto dell'autostrada A29 in cui il 23 maggio del 1992, una bomba fece saltare in aria, uccidendoli, il Giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta: Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. 
Così come sono stato tante volte nel luogo esatto dove un'autobomba ammazzò il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta (Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano e Claudio Traina) il 19 luglio 1992, in via d’Amelio a Palermo. E ancora diverse volte sono stato nel luogo esatto in cui il 3 settembre del 1983 morirono crivellati dai proiettili il Generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta Domenico Russo. 
In molte occasioni ho sentito dire che tutte queste vittime, come tante altre, hanno sopportato in solitudine la loro scelta di dedicarsi alla lotta alla mafia, e che scegliendo questa strada hanno messo a rischio le loro stesse vite, forti delle loro convinzioni e dei valori di giustizia, ma in particolar modo del loro senso del dovere di funzionari pubblici incorruttibili. Ho approfondito le storie di altre vittime di Cosa Nostra percorrendo le strade e i quartieri di Palermo, soffermandomi davanti ogni segno degli attentati mafiosi perpetrati negli anni del terrore. Vittime come il giornalista Peppino Impastato, il Giudice Rocco Chinnici, il sacerdote Giuseppe “Pino” Puglisi, il giornalista Giuseppe Fava e molti altri. Vittime che continuano ad essere presenti nella coscienza cittadina. Una coscienza cittadina che sfortunatamente, a momenti, sembra patire di amnesie e indifferenza davanti a tutti questi morti. Indifferenza per gli anni trascorsi o per altri motivi ugualmente ingiustificabili.

dalla chiesa moglie 610In queste occasioni mi sono ritrovato a pormi sempre la stessa domanda: per quale motivo da oltre 150 anni, al di là delle circostanze storiche e congiunturali di ogni epoca, Cosa Nostra si è letteralmente accanita su questa bella terra? A volte ho trovato delle risposte storiche, aberrazioni storiche che sostenevano le aberrazioni mafiose. Molte volte mi sono indignato e mi sono stupito della sfacciataggine degli uomini di Stato italiano, (e della politica italiana), capaci di ostentare i loro legami con i circoli mafiosi. In molti testi e documenti sparsi per il mondo ho letto che la mafia è il lato oscuro di un'isola e di un paese in cui i governi si sforzano nel predicare una lotta che in realtà non portano avanti, perché è scaricata alla responsabilità di pochi e ignorata dalla maggior parte (quando non viene addirittura ostacolata).

Mi sono ritrovato a pensare al male mafioso - che continua intatto - come ad un rullo compressore che per anni e anni, non ha fatto altro che arricchirsi economicamente, assassinando centinaia di magistrati, poliziotti, politici onesti, giornalisti, sacerdoti, bambini, adolescenti, e cittadini completamente estranei alle lotte intestine delle famiglie mafiose. Nei miei viaggi lungo tutto lo stivale italiano, ho sentito parlare della mafia considerandola più un male emblematico che uno da estirpare o eliminare con priorità assoluta. Molte volte purtroppo mi sono visto obbligato ad ammettere che questo male emblematico fa parte di alcuni modi di pensare del popolo italiano. Un popolo che a periodi commette la barbarie di dimenticare i martiri dell'antimafia, ma durante certe ricorrenze, sorprendentemente, esce nelle strade o appare nei media con una ipocrisia ed una superficialità veramente inaudita.

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Ho sentito dire molte volte che la mafia è parte della cultura italiana, in particolare della cultura finanziaria, della cultura politica e della cultura statale di questo paese. A volte, la mafia o gli uomini d'onore, o le famiglie mafiose del terzo millennio, non sono nient'altro che imprenditori all'angolo della piazza di Palermo o universitari, o potenti del Quirinale, o potenti della televisione e del mondo dello spettacolo o del mondo del calcio. Molte volte ho letto i libri di Roberto Saviano, esultando per il suo coraggio di smascherare, spulciando le tracce lasciate dalle imprese dei gruppi mafiosi, a costo della propria vita, oggi blindata perché condannato a morte dalla Camorra.

Ho avuto modo di constatare che non sono pochi i colleghi, (e anche magistrati e pubblici ministeri dell’antimafia), che in Italia scrivono con coraggio su queste tematiche.

Molte volte ho sentito dire che le mafie italiane - Cosa Nostra, la Camorra, la ‘Ndrangheta e la Sacra Corona Unita - sono un cancro universale, dove gli uomini del male sembrano essere intoccabili anche perché si sono adattati perfettamente al sistema moderno, di un millennio del capitale finanziario divoratore dei sogni e delle speranze. Sogni e speranze degli uomini liberi che continuano a remare contro corrente, gridando che la mafia non è un argomento del passato, ma del presente. Un presente mafioso travestito da agnello, però con l’astuzia di un lupo. Un lupo nascosto e infiltrato tra la moltitudine degli italiani e tra le folle degli altri paesi del pianeta.

Ho avuto l'occasione di seguire l’arduo ed eroico lavoro che svolge in Calabria il Magistrato Giuseppe Lombardo, affrontando coraggiosamente e intelligentemente i gruppi mafiosi di questa zona dello stivale. Un lavoro che lo ha collocato nella lista nera dei suoi nemici.

Molte volte ho ascoltato le voci e le oratorie degli uomini di Stato che senza alcuna vergogna dicevano blasfemie nel momento di ricordare o riferirsi a tutto il male causato dalle varie generazioni di famiglie mafiose.

Ho potuto parlato con Letizia Battaglia, (eccellente fotoreporter - in Uruguay, il mio paese, la qualifichiamo così), che ha tramandato immagini e sensazioni dei tempi della violenza mafiosa di Palermo, con gli occhi dell'obiettivo della sua macchina fotografica, con l’unico scopo di denunciare e combattere la mafia. Nel suo appartamento al centro di Palermo, in un bar di una qualunque strada di Palermo, o nella redazione della nostra rivista in via Francisco Cangiamila 88, l'ho vista sempre combattiva, pronta a sostenere in modo energico ogni sorta di azione, idee, progetti, lotte e mobilizzazione, per estirpare con urgenza il cancro mafioso dalla sua amata terra in cui vive con meravigliosa intensità.

Molte volte, a Palermo, ho parlato con le vittime di mafia ascoltando attentamente le loro storie e le loro sofferenze causate dai demoni di queste organizzazioni criminali che per anni hanno falciato vite umane. Ho sentito, in diverse occasioni, sulla mia pelle l'energia della Palermo ricca di arte, cultura, lirica, teatro e pittura e allo stesso tempo l'energia della morte, del dolore e della corruzione.

Ho potuto entrare anche nell'aula bunker dell'Ucciardone per seguire, con ammirazione quasi religiosa, gli interventi del Pubblico Ministero Antonino Di Matteo in aula durante le udienze del processo sulla trattativa Stato-mafia.

Ho percorso i corridoi del Palazzo di Giustizia di Palermo intervistando i magistrati e i pubblici ministeri dei tempi passati e dei tempi presenti, identificandomi nei loro pensieri e nelle loro valutazioni sugli anni del terrore e sulle stragi di Capaci e di via d’Amelio. E lì ho avuto modo di conoscere i particolari della vita di Bernardo Provenzano, - ora deceduto -, del suo successore Matteo Messina Denaro, - latitante - e del loro capo, Totò Riina, in carcere, che scandalosamente chiede la libertà anticipata come se nel passato non fosse successo niente e lui non avesse fatto niente.

Grazie al direttore di ANTIMAFIADuemila Giorgio Bongiovanni, ho ascoltato le testimonianze del pentito Gaspare Mutolo. Un ex uomo di mafia che ha trovato nella pittura la possibilità di esprimere nuovi orizzonti. Un ex uomo di mafia che sicuramente nel suo intimo deve aver calibrato la vera dimensione del suo cambiamento e della sua nuova vita.

Ho avuto la fortuna di ascoltare il Pubblico Ministero Antonino Di Matteo parlare in modo coerente e coraggiosamente del suo lavoro di investigazione in modo chiaro e profondo. Come è accaduto in una recente conferenza durante la quale ha avuto la compiacenza di condividere pubblicamente uno spaccato della sua vita professionale: “Una volta Salvatore Cancemi, pentito che apparteneva alla cupola di Cosa Nostra, mi disse con enfasi: ‘Vedi, Riina mi diceva sempre, ‘se non avessimo avuto relazioni con la politica, con il potere, saremmo stati una banda di sciacalli una banda di delinquenti comuni'’. Io aggiungo, una banda facilmente attaccabile da un'azione ordinaria di comune repressione. Le teste pensanti dell'organizzazione, come anche Riina, sono coscienti della decisiva importanza per la loro esistenza delle relazioni con il potere. Quello che continua, e ciò mi delude e mi preoccupa molto, è in questo momento l'assenza di un coscienza istituzionale e politica davanti alla necessità di fare un salto qualitativo: impedire una volta per tutte qualunque possibilità di relazione tra la mafia e la politica. Loro sanno il peso che hanno queste relazioni. Noi, lo Stato, dobbiamo maturare questa conoscenza e trasformarla in azioni. Per vincere la guerra è necessario creare le condizioni per rompere queste relazioni. Il tentativo non può prescindere dal recupero dell'autonomia e della supremazia del ruolo della politica”.

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Mi è capitato di osservare questo magistrato circondato dai suoi agenti di scorta intenti a prevenire qualsiasi pericolo di morte. Una morte annunciata dai circoli mafiosi con il sigillo degli esplosivi, come a voler ripetere le storie di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, perché sicuramente la lotta è comune, anche se in epoche e in circostanze diverse.

battaglia borsellino 1000Un magistrato che ha dovuto sopportare ostacoli e “frecciate” da rappresentanti anche della magistratura e dello stesso Stato e il lavoro dei mass media impegnati ad offuscare il suo operato. In suo sostegno ci sono state diverse manifestazioni ed eventi a cui ho partecipato con convinzione, in Italia come in Sud America.

Nel tempo ho avuto modo di confrontarmi e condividere le analisi di colleghi come Saverio Lodato, Marco Travaglio, Lorenzo Baldo, Giorgio Bongiovanni, Aaron Pettinari, Anna Petrozzi, Giulietto Chiesa, Margherita Furlan e altri.

Ho potuto apprezzare il lavoro, il coraggio e le parole del sacerdote don Luigi Ciotti, fondatore di “Libera”, che da sempre invita tutti a conoscere e studiare perché è l'unica strada per il cambiamento. In tutte queste occasioni ho capito che non è da tutti portare avanti un'opera che è vincolata direttamente a chi è stato toccato o ferito dalla mafia.

In quella terra bellissima e disgraziata che è la Sicilia ho visto ed ascoltato Salvatore Borsellino - fratello del Giudice Paolo Borsellino - battagliare instancabilmente con le sue Agende Rosse perché si faccia giustizia prima che il tempo gli faccia abbassare le braccia. Affianco a questi uomini ho visto, con gioia i giovani, come i ragazzi del movimento giovanile “Our Voice” che cercano attraverso l'arte, la musica e la forza della loro gioventù di denunciare che la mafia è un male non esclusivamente italiano. Una denuncia che vuole passare attraverso l’educazione alla legalità con la messa in pratica dei valori di giustizia e specialmente con l’idea (e la convinzione) che tutti i martiri del passato (quelli uccisi, danneggiati e impigliati dalla mafia) devono rendere più forte la lotta dei giovani di oggi, perché la mafia non è stata ancora annientata.

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Molte volte, come direttore della redazione uruguaiana di ANTIMAFIADuemila, ho scritto sulla mafia italiana e sulle mafie sudamericane sulle violazioni dei Diritti Umani, le dittature sudamericane, i desaparecidos, la corruzione dei governi e di tutti quei argomenti, che inequivocabilmente suggeriscono la presenza dell’impunità. Quella maledetta impunità, sempre presente nella storia dell’umanità e del crimine.

Troppe volte quando parliamo della storia della mafia e del potere sposato con la mafia, siamo costretti a parlare - inesorabilmente - del impunità che regna onnipotente. perché mafia, potere e impunità si riciclano, si alimentano e si riproducono. Servono lo stesso padrone: il denaro e il potere, inseriti una società democratica e libera, che ha vissuto ingannata e vive ingannata.

Il Pubblico Ministero Antonino Di Matteo, in una recente conferenza intitolata “Questioni e visioni di Giustizia: Prospettive di riforma” ha detto con enfasi: “Cercherò anche di non ripetere quanto, condivisibilmente a mio parere, rappresentato da chi è intervenuto prima di me sull’interazione tra mafia e corruzione. Ormai nel perseguire il loro intento di profitto, gruppi imprenditoriali di diversa consistenza ed estrazione, sempre più spesso ricorrono, alternandoli o integrandoli gli uni agli altri, a metodi corruttivi e a metodi tipicamente mafiosi. A loro volta le mafie, per riciclare il loro denaro ed investirlo in attività apparentemente lecite, ricorrono direttamente al metodo corruttivo o sfruttano l’esercizio di quel metodo da parte dell’imprenditore colluso in grado di oliare meglio e a dovere, i meccanismi dell’amministrazione della Cosa Pubblica. Per questo oggi mafia e corruzione si evidenziano come due facce della stessa medaglia, segmenti di un sistema criminale integrato. Allora noi dobbiamo trovare la capacità di individuare e reprimere in maniera omogenea queste due facce della stessa medaglia. Ed invece, ad oggi, così non è. La situazione dei numeri dei detenuti nelle nostre carceri lo dimostra: le statistiche sono state poc’anzi ricordate. Un numero irrilevante di detenuti, veramente irrilevante, sta scontando una pena definitiva per reati di corruzione, concussione, turbativa d’asta o scambio politico elettorale mafioso. Dobbiamo dire la verità e dobbiamo avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome e cognome. Versiamo in una situazione di sostanziale e totale impunità di condotte gravissime e ciò pesa ormai in maniera insopportabile non solo per i danni economici, di cui no mi appassiona la stima dei danni economici, ma ancor prima per la mortificazione delle legittime e sacrosante aspettative dei cittadini onesti e per un effetto generalizzato di induzione al delitto che la certezza della sostanziale impunità produce nella nostra società”.

Molte volte ci sono state gravi impunità. Impunità che sono state e sono la base portante del sistema mafioso e del suo potere economico, politico-imprenditoriale in Italia e nel mondo.

In definitiva, prima e dopo Capaci e via d’Amelio, molte volte, anzi troppe, non c’è stato altro che impunità.

*Foto di copertina:
Giovanni Falcone insieme al giudice Rocco Chinnici © Franco Zecchin

*Foto 1: il generale Carlo Alberto dalla Chiesa e sua moglie

*Foto 2: l'attentato di Capaci

*Foto 3: il boss Totò Riina

*Foto 4: Paolo Borsellino, Franco Zecchin e Letizia Battaglia  © Shobha

*Foto 5: Antonino Di Matteo e don Luigi Ciotti

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