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ardita sebastiano pp c giorgio barbagalloIntervista
di Giuseppe Leonetti

Sebastiano Ardita è nato a Catania nel 1966. In magistratura dall’età di 25 anni, è stato sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Catania, e componente della Direzione Distrettuale Antimafia, ove si è occupato di criminalità organizzata di tipo mafioso, di inchieste per reati contro la pubblica amministrazione e di infiltrazioni mafiose nei pubblici appalti e forniture.

È stato consulente a tempo pieno della Commissione parlamentare Antimafia e componente del Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati. È stato anche direttore generale della direzione detenuti e trattamento nel Ministero della Giustizia. Autore di numerosi libri, tra i quali vanno ricordati Catania Bene e il recente Giustizialisti, scritto con il magistrato Piercamillo Davigo.
Attualmente è Procuratore Aggiunto della Procura della Repubblica di Messina.

Dott. Ardita, vige ancora, secondo Lei, il principio comportamentale, che fu illustrato a Rocco Chinnici, secondo il quale i giudici devono fare il proprio dovere evitando però di scoperchiare pentole che non vanno scoperchiate?
In una democrazia il principio della separazione dei poteri non esclude che ciascun potere possa reagire in modo fisiologico alla circostanza che un altro possa limitarlo o tendere a ridurne l’espansione. Il problema è far sì che ciascuno si fermi nell’ambito del giusto confine. Nella fase storica attuale è la politica che manifesta a volte insofferenza per l’azione dei magistrati, specie quando – come diceva Lei, ricordando le parole di Chimici – vengono scoperchiate pentole. Ma questo rientra nella normalità di una democrazia. L’importante è che la magistratura mantenga in concreto quelle condizioni di autonomia ed indipendenza che possano consentirle di tutelare i privati cittadini sempre e dinanzi a chicchessia. E proprio il tentativo di indebolire in concreto questa autonomia che preoccupa di più ai giorni nostri.

Giustizia Penale e Giustizia sociale: due facce della stessa medaglia o due rette parallele che non si incontreranno mai?
La giustizia penale è una giustizia formale (law in book), e può rimanere lettera morta fino a quando non venga tradotta in atti concreti di giustizia (law in action). La giustizia sociale è una condizione di equilibrio della società che tanto più è presente, tanto meno necessita di intervento penale. E non è neppure certo – anzi non lo è affatto – che la giustizia penale produca di per sé giustizia sociale. È solo l’azione complessiva dei pubblici poteri e delle istituzioni politiche che consente ad una società di crescere in modo giusto.

Capitolo 3, pag. 44, del libro Giustizialisti: “Le pene si trasformano in improbabili misure alternative alla detenzione”. Quali le maggiori criticità che inficiano la funzionalità delle misure in questione?
Le misure alternative sono strumenti sacrosanti che consentono ai detenuti che ne abbiano voglia di affrontare il duro percorso della riabilitazione sociale e di coglierne i conseguenti benefici. Un percorso fatto di rinunce, di nuovi valori, di cambiamento di esistenza, che quasi sempre offre frutti positivi generalmente stabili e reali. Chi si guadagna una misura alternativa con sacrificio quasi mai torna a delinquere. Ma purtroppo esiste anche una abitudine tutta italiana di estendere questi strumenti anche a soggetti che non risultano meritevoli, ad esempio concedendo benefici dai quali non dipende alcun cambio di esistenza (quale la liberazione anticipata) ed in altri casi utilizzando questi stessi benefici come strumenti svuota-carceri anziché come strumenti di rieducazione. Ed ecco che la sanzione penale – che in Italia già arriva tardi e diventa effettiva solo a fronte di crimini gravi – viene con facilità abbuonata anche a criminali veri per niente desiderosi di cambiare vita.

Giovanni Falcone amava guardare lontano e infatti fu il primo a parlare del c.d. Terzo livello: il gioco grande, oltre la “semplice” mafia. Ancora oggi si registra una certa ritrosia dello Stato a processare se stesso. Quale la Sua idea sul periodo stragista e quali gli effetti prodotti, dallo stesso, nel “recinto” mafioso, all’interno delle Istituzioni e nella società odierna?
Lo Stato non processa mai se stesso. Lo stato processa persone che quando vengono chiamate a discolparsi da accuse devono essere considerati privati cittadini. Tutti possiamo essere chiamati a rispondere delle nostre azioni, ma quando ciò avviene ci dobbiamo sentire privati e non pezzi di Stato. Purtroppo questa sensibilità non sempre è comune a tutti e non è neppure condivisa da chi ritiene che quando si siano rivestite cariche politiche importanti si possa essere considerati come dei pezzi di Stato, di tal che, se si viene chiamati a rispondere dinanzi ad un Tribunale, quel Tribunale avrebbe la pretesa di giudicare lo Stato. Ma sinceramente non credo che il Costituente avesse questa idea così “privatizzatile” delle Istituzioni.

Magistrati e politica: quale la Sua idea circa la categoria delle toghe partitiche a tempo determinato?
La nostra Costituzione all’art. 51 consente a tutti di partecipare a competizioni politiche e di potere svolgere il proprio impegno politico anche attraverso l’elettorato passivo, conservando il proprio posto di lavoro. Ritengo però – così come pensa una buona parte di Italiani – che un magistrato che decide di fare tale scelta non dovrebbe poi tornare ad indossare la toga. Ma questo è un problema che deve essere affrontato e risolto dalla politica, non solo perché si tratterebbe di intervenire su di una norma costituzionale, ma anche perché si tratta di un problema che riguarda politici i quali – benché siano ex-magistrati – oramai appartengono a tutti gli effetti a quella categoria. Dunque è un problema di credibilità dinanzi ai cittadini che devono essere loro a risolvere; mentre ai magistrati poco importa dei destini di quanti hanno lasciato la toga per fare politica.

Tratto da: odysseo.it

Foto © Giorgio Barbagallo

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