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kennedy matrimonio bnRiflessione di un “giovane” vecchio
di Luciano Armeli Iapichino
Non è facile! Non è facile scrivere alcune cose, traghettarle direttamente dagli anfratti del disagio e dalle remote caverne del mal du vivre, e consegnarle alla redazione di un giornale.
Non è facile confessare uno stato d’animo, renderlo pubblico, soprattutto se l’oggetto del discorso può essere indifferente o, a ragione, incompatibile con i tempi odierni agghindati di velocità, mercati azionari sottoposti alla subdola disinformazione dettata da capi di governo senza scrupoli, algoritmi e strane dipendenze social. Comprese le mie!
E non è facile denudare un disagio di questo tipo se chi impugna la tastiera del PC, ha “ancora” quarantadue anni.
Ebbene, l’amara verità che oggi tormenta lo stato d’animo dello scrivente e che circolerà su internet tra qualche ora concerne un crescente disadattamento per questi tempi. Il mio!
Ho preso piena coscienza che questa civiltà, la mia civiltà, di cui faccio abuso e consumo, quella multitasking, quella del post villaggio globale, quella dei megapixel e della digitalizzazione del mondo, delle scuole, dei servizi, della politica, della società tutta, non fa per me. Non la sento mia!
Un disadattamento, forse, che si annida nella sensibilità di un genere d’individuo definito “umanista”, imbevuto di una particolare formazione che ha troppo amoreggiato col passato, con i classici, con la filosofia, con la storia e che, in tempi di clic, di automatizzazioni, di ritmi forsennati e in perenne adattamento, si comporta come chi fa buon viso a cattivo gioco.
Laddove il cattivo gioco è rappresentato dalla percezione – magari errata – di un tramonto della civiltà più autentica, ornata di un corredo di abitudini e stili del pensiero che oggi apparirebbero antiquate; mentre il buon viso sarebbe di chi maschera il disagio e la sua forzata rassegnazione per quest’orizzonte globale.
Insomma, un meccanismo di difesa messo in atto per non essere tagliato fuori dai giochi, stare al passo con i tempi, sgomitare per un breve momento d’invalidante visibilità.
Che poi il dramma non è la globalizzazione, gravida pure di vantaggi, ma quello strano senso di benessere, se percepito tale, che ha cancellato, in nome della scienza e del profitto, quel vivere e quel relazionarsi di un tempo, per certi aspetti, più sani, più concreti, più sacrificali ma allo stesso tempo più incisivi nella crescita, nella gratificazione, nella scala delle aspettative e in quella della felicità. Ha cancellato il gusto della percezione, dell’assaggio delle prelibatezze emotive della vita, di quel particolare che impone tempo e pazienza e che scandaglia il particolare nel calice della profondità.
Abbiamo smarrito, e questa è la mia opinione, l’aspetto vintage del vivere e le piccole grandi abitudini che lo qualificavano. Ho cercato di comprendere, a questo punto, quale sarebbe potuta essere la giusta collocazione temporale di chi, figlio degli anni ’70, le emozioni della televisione in camus albertbianco e nero, della radio con i segnali disturbati che polarizzavano ugualmente la nostra attenzione, della macchina da scrivere, delle feste dell’Unità paesane, delle stragi degli anni ’80, della morte del piccolo Alfredino, delle tribune politiche della Prima Repubblica – Pertini, Almirante, Berlinguer, Pannella, i democristiani, Craxi, per fare qualche nome – di ’90 minuto, di Bruno Pizzul e di quelle colorate esternazioni del Trap, non le ha studiate sui libri di storia ma le ha vissute dal vivo.
E il salto temporale, che mi porterebbe a essere un felice protagonista del proprio periodo, sarebbe, con la lente di chi oggi respira il mondo povero di Trump, di Kim Jong-Un e di Google, ancor più a ritroso di quegli straordinari anni ’80 e ’90 che hanno forgiato, per fortuna, la mia sensibilità e la mia formazione, mi farebbe approdare agli anni ’60.
E sì, sono un tipo da anni ’60, che percepisce la nostalgia “costruttiva” delle immagini, delle forme e degli stimoli che il mondo e la cultura di quei tempi presentavano.
E non solo sul piano nazionale, ma anche su quello internazionale.
Sono anacronisticamente affascinato dalle proiezioni su carta di Albert Camus e Georges Simenon e da quelle cinematografiche di Luchino Visconti e Federico Fellini; sono ammaliato dalle testimonianze da Cuba di Spriano nel ‘62 o dalle bellissime immagini di quel figlio di falegname, Jurij Gagarin, l’anno prima dallo spazio.
E poi, la Guerra Fredda, le vicende di quella famiglia tanto potente quanto martoriata, i Kennedy, della vera dolce-vita sulla Laguna, a Capri, in Costa Azzurra, evocata oggi da quegli spot in bianco e nero dagli stilisti e dalle principali aziende della cosmesi;
della forza della classe intellettuale che “condizionava” l’interesse e l’opinione dei popoli.
In altre parole, sono nostalgico di tutta una civiltà che oggi è stata “cancellata” da un vivere altro e in cui la linea del bello, del gusto, dell’interesse per l’informazione sul mondo, delle paure per gli eventi e per la cronaca del mondo, del reale piacere delle cose del mondo è stata nebulizzata da una malsana abitudine che ha sbranato il nostro tempo, incenerendo anche il mio: il touchscreen.
Sono stato collocato, dunque, in un’epoca cui non sento di appartenere e in cui cerco di costruire – con scarsi risultati - dentro e fuori, dei paesaggi virtuali al pari di un illusionista e di quelli digitali che connettono il mondo e che, se rinnegati, ti tagliano fuori da esso.
Oggi il ricatto sta, dunque, nell’accettare questa perversa malattia che ci aggrappa, con una strana modalità mutuata dall’inglese, online, in un contesto storico malato di consumismo e d’immagine, divorando pure la giusta applicazione negli aspetti della vita del concetto di qualità.
Il sovraccarico delle immagini negative, che il tempo di oggi sforna dall’alba al tramonto, non è smaltito né controbilanciato da un senso dell’esistere puntellato da reali e autentici intermezzi di sosta e pace dell’anima.
Il sovraccarico delle nostre immagini, dal canto suo, ha azzerato i curricula di tutti, protagonisti allo stesso modo, con la stesse abitudini e, soprattutto, con le stesse competenze, del nostro nuovo rifugio virtuale senza imperfezioni.
Oggi si coglie, utilizzandola alla massima potenza, un’opportunità che in altri secoli era procurata dalla sensibilità di qualche grande romanziere: quella data alle generazioni di non passare inosservate, in questo mondo alla rovescia, senza sforzo alcuno e, soprattutto, sganciati dal propulsore dell’ambizione.
delon alainAppagati di nulla, percepiamo di essere tutti, in egual misura, protagonisti della storia.
Di quella però che non si scrive sui libri né nel futuro di ognuno ma che, di contro, i libri li allontana.
A questo punto, è doverosa un’ultima confessione: ho imparato a invidiare. Sì!
Ho scoperto di provare questo ignobile sentimento che sino adesso non avevo percepito mio. Invidio quelle generazioni che hanno rifiutato questa pazza follia di gratificarsi con un mostro tecnologico tra le mani e in un mondo inesistente; quelle persone che si recano dal giornalaio ad assaporare ancora la stampa fresca di un quotidiano, che confrontano le opinioni nei giardini pubblici e dal salumiere e che raccontano di un passato, di abitudini e di tradizioni di cui, francamente, non importa a nessuno. Quelle persone che hanno ancora l’abitudine di cenare presto e di “vaffanculizzare” i ritmi imposti dal dio profitto che ha fatto del benessere un surrogato della sopravvivenza.
Questo il pensiero che un’anima in bianco e nero, la mia, fuori dal suo tempo e nostalgico di un film con Alain Delon, Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale o di quella sana comicità di Totò, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia; privato dell’almanacco Rai e delle conturbanti gemelle Kessler, leggerà, comunque e tra qualche istante, nel display del suo smartphone.
Questa l’inutile autocritica di un “giovane” vecchio cui mancano i salotti letterari della Belle Époque, la corrispondenza epistolare con quel mondo di cultura vecchio stile che continua a pontificare con gli acari della libreria.
Questa l’amara riflessione di chi ha apprezzato le linee di quei juke-box e di quei frigo dallo stile vintage, le vecchie cornette del telefono e l’agire di politici, intellettuali, giornalisti, e di tutte le professioni che hanno costruito una nazione senza tablet e senza linea, in modalità off-line, e che ha assaporato il tempo della costruzione.
Oggi non siamo più sommelier della nostra vita.

In foto dall'alto: John Fitzgerald Kennedy insieme alla moglie Jacqueline, Albert Camus e Alain Delon

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