di Matteo Castagna
Il fratello del giudice ammazzato («strage di Stato, non "mafiosa"») invita a tenere gli occhi aperti sulle infiltrazioni nelle istituzioni
Il magistrato Paolo Borsellino, nel corso di un incontro pubblico a Castelfranco Veneto nel 1990 disse che «la corruzione è l’anticamera della mafia». Sono passati 26 anni e questa affermazione è sempre attuale. Le cronache quotidiane ce lo dimostrano, soprattutto oggi che il fenomeno della collusione tra la criminalità organizzata, settori deviati delle istituzioni, tra cui alcune amministrazioni locali, e parte del mondo imprenditoriale sta drammaticamente radicandosi anche qui al Nord, in nome dell’interesse economico comune. Tutto ruota attorno al denaro ed all’avidità spregiudicata. Ne è fortemente convinto il fratello del giudice trucidato dalla mafia il 29 luglio del 1992, l’ingegner Salvatore Borsellino, che abbiamo incontrato a Verona, nel corso di una conferenza organizzata venerdì 7 ottobre dall’avvocato Michele Croce, candidato sindaco di Verona Pulita.
Attivo e battagliero settantaquattrenne, trasferitosi a Milano a ventisette da Palermo, ci tiene a precisare che, oltre alla sua famiglia ed al suo lavoro, egli desidera ardentemente continuare a lavorare per testimonianza e la verità, non solo in merito alla morte del fratello, ma per lasciare ai giovani il testimone dell’educazione alla legalità, all’amore per la giustizia, che, purtroppo, vede scemare col passare degli anni, nell’abitudine allo status quo, nell’indifferenza di fronte a fenomeni inquietanti e pericolosi, che «non possono far parte di una società civile». Non ci si può abituare a dover pagare per lavorare, così come non è possibile tacere di fronte alle minacce di chi vorrebbe imporre la sua legge, fatta di traffici illeciti, racket della droga e, qui al Nord, di infiltrazioni nel tessuto economico-politico attraverso appalti e subappalti truccati.
L’ingegner Borsellino si schermisce quando sente dire che il fratello è stato vittima di una strage di mafia: sostiene che ormai ci sono sufficienti elementi per gridare che il giudice Borsellino è stata una delle vittime delle tante stragi di Stato, che nel corso dei decenni «questo disgraziato Paese» ha visto e pianto, asciugandosi le lacrime forse troppo presto. Rimpiange, con la voce rotta, di esser scappato da Palermo perché non gli piaceva un sistema fatto di corruzione, malaffare e morte e di non aver seguito l’esempio del fratello, che, invece, volle restare per amore, in quanto «il vero amore consiste nell’amare quello che non ci piace per poterlo cambiare», anche fino all’estremo sacrificio.
La sua opera di testimonianza è riassunta così: «non fuggire dal puzzo di contiguità e dal compromesso con le mafie» perché esse sono un cancro che possiamo curare con la forza della volontà, con l’azione di denuncia, con l’onestà, con la trasparenza, con l’ordine, col coraggio, anche se molte realtà sono, oramai in metastasi. Sono queste le armi che ci sono rimaste, anche se sembrano spuntate di fronte ai poteri forti, «a quei pezzi deviati dello Stato che hanno fucilato Borsellino alle spalle e che sono i veri mandanti della strage di Via D’Amelio. Si tratta di coloro che vollero e riuscirono ad ottenere, trasversalmente, da sinistra a destra, passando in particolar modo per il centro, una trattativa con la mafia per accordarsi con essa in un abbraccio mortifero (per il bene comune) in cambio di voti o prebende, che mio fratello e tutto il suo pool di lavoro avversavano con tutte le forze. I loro nomi? Sono nella famigerata agenda rossa di mio fratello, fatalmente scomparsa, in cui si trovano tutte le risposte, che penso di conoscere e di cui ho dato conto, senza ancora ottenere quella verità e giustizia che non credo arriveranno presto». Un brivido gelido assale chi ascolta queste parole.
Continua come un fiume in piena: «Anche con gli omicidi di Stato, determinate persone e determinati partiti hanno pagato delle vere cambiali alle mafie e le pagano tuttora, attraverso il depistaggio dei processi, i fascicoli nascosti o le indagini insabbiate, attraverso l’uso strumentale e furbastro di alcune leggi per non arrivare mai al dunque. Nel 1992 mio fratello pagò con la vita il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, ma la minestra non è cambiata». Non le manda a dire neppure alla Chiesa ufficiale, ricordando in particolare la figura del cardinale Ruffini, che negava l’esistenza della mafia perché amico dei mafiosi, oppure quella del sindaco palermitano Vito Ciancimino, che era in linea con Ruffini. La saggezza dell’uomo segnato da un dolore immenso, quanto dall’ardente desiderio di verità e la sete di giustizia, attraversa il sentiero di un’umiltà disarmante quanto commovente: «Per essere davvero fratelli di Paolo bisogna aver fatto le stesse battaglie, condiviso le stesse finalità di giustizia ed amore per il proprio Paese, condividendo gioie e dolori, scontrandosi senza paura contro ogni muro di gomma del sistema, contro ogni omertà e connivenza. Chi può avere, ancora oggi, questo privilegio, è soltanto Giovanni Falcone, che con mio fratello condivise proprio tutto, anche la morte, a 57 giorni di distanza».
Conclude, dando una lezione di vita a tutti noi, spesso superficiali o non sempre attenti a quanto ci accade attorno perché malati di quell’individualismo di cui, in realtà, siamo delle vittime inconsapevoli e pietose: «si lotta contro le infiltrazioni delle mafie nelle amministrazioni, ed è un dovere, ma ancor più si deve lottare perché le mafie, le lobby, i comitati di affari avvelenati, le clientele, sono ovunque e fanno oramai parte delle nostre vite. Non ammazzano, hanno i colletti bianchi». Le piovre lanciano i loro tentacoli e ci immobilizzano, in alcuni casi senza che ce ne accordiamo. Stiamo svegli, testimoniamo, denunciamo, non rimaniamo inerti o nascosti. Altrimenti Borsellino e suo “fratello” Falcone li ammazziamo per la seconda volta.
Tratto da: vvox.it