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di matteo palco muggiaAntonino Di Matteo a Muggia per ricordare Paolo Borsellino e la sua scorta
di Jessica Pezzetta Savogin
Mancano pochi giorni al ventiquattresimo anniversario della strage di Via D’Amelio, quando nel corso della stessa rovente giornata apprendiamo della scomparsa del capomafia corleonese Bernardo Provenzano, di cui non possiamo non ricordare i 43 anni di latitanza, e abbiamo l’inaspettato onore di conoscere personalmente il dottor Antonino Di Matteo, magistrato che si occupa del processo sulla trattativa stato-mafia e per questo condannato a morte da Cosa Nostra. E’ la sera del 13 luglio 2016 e Muggia, in provincia di Trieste, è presidiata dalle Forze dell’Ordine. L’atmosfera è carica di tensione e di aspettativa. La folla è tanta e giriamo parecchio tempo prima di riuscire a trovare un parcheggio. Da diversi anni ormai cerchiamo di sostenere, come moltissimi altri cittadini, il dottor Di Matteo ma mai, sino ad oggi, abbiamo avuto occasione di conoscerlo. Finalmente entriamo al Teatro Verdi, la sala caldissima, è già gremita di agenti e persone in attesa, in molti cercano un posto dove sedersi. La serata è intitolata La strage di Via D’Amelio: il difficile cammino verso la verità ed è organizzata da Libera, dalla segreteria regionale del Siulp (Sindacato italiano unitario dei lavoratori della Polizia), con la collaborazione di Libera Informazione, grazie al patrocinio del Comune di Muggia, e, come avviene ormai da nove anni in occasione della ricorrenza della strage di Via D’Amelio, alla presenza della famiglia di Eddie Walter Cosina, agente di scorta muggesano rimasto ucciso dalla mafia assieme ai suoi colleghi nell’attentato a Paolo Borsellino il 19 luglio 1992.
Ed ecco entrare il magistrato, l’emozione è forte e in sala c’è agitazione, viene raggiunto da parecchie persone che chiedono di poterlo salutare. Finalmente la tensione si placa e il magistrato accompagnato dalla sua scorta raggiunge le poltrone sottostanti il palco sul quale salgono dei giovani, rappresentanti di Libera, che aprono la serata con parole che ci fanno riflettere, parole come giustizia, verità, libertà, coraggio e memoria. E proprio "la memoria è il punto di partenza, è quel luogo nel quale ritroviamo l’orgoglio di essere cittadini italiani". "Siamo qui perché per noi la mafia non deve vincere, perché la morte di Eddie e di tutte le vittime innocenti delle mafie non è solo l’inizio di un periodo di dolore, ma è anche la cellula da cui origina un nuovo impegno spinto dalla forza di chi non smette di crederci, mai. Cara Italia, noi siamo piccoli esempi di ciò che da quella cellula si è creato, siamo le persone che hanno capito che non c’è libertà se manca il coraggio e che il coraggio aumenta se si rimane uniti". "Oggi siamo chiamati ad una nuova resistenza, fatta di perseveranza e indignazione, di impegno e di memoria. Questa sera siamo qua, tutti insieme, a vivere la nostra resistenza e praticare la nostra memoria. Questa sera, con Nino Di Matteo, a cui rinnoviamo il nostro appoggio prima della nostra ammirazione, ricordiamo la strage del 19 luglio. Il nostro pensiero va al nostro concittadino Eddie Cosina e a tutte le vittime innocenti delle mafie le cui vite erano e sono parte di ognuno di noi". Ogni giorno, spiegano questi giovani, bisogna scegliere da che parte stare perché ognuno nel suo piccolo può fare la differenza, sostenendo che "il cambiamento deve partire da noi ragazzi e non ci possiamo aspettare una grande svolta se non la facciamo nascere ogni giorno con piccoli gesti, insieme". A partecipare a questo evento commemorativo e a sostegno dell’attuale lavoro della magistratura anche il neo eletto sindaco di Muggia Laura Marzi, secondo la quale si tratta di "una serata in cui poter ragionare di mafia e delle sue implicazioni e poter manifestare la nostra stima e la nostra solidarietà al dottor Di Matteo che da molti anni segue, tra le altre cose, anche l’inchiesta relativa alla trattativa stato-mafia con coraggio, con determinazione, con grande impegno, nonostante le minacce di morte ricevute da quello che è stato considerato ed è considerato il più efferato stragista mafioso, Totò Riina. Minacce a causa delle quali Nino Di Matteo  sta vivendo da più di vent’anni sotto scorta. Una solidarietà che è importante non gli arrivi esclusivamente dai singoli cittadini o dalle associazioni, importantissime, come Libera, ma anche dalle Istituzioni che qui io rappresento, e dalla politica che delle Istituzioni è parte integrante. Ritengo sia importante che proprio dalla politica parta la ferma volontà di tagliare qualsiasi tipo di velleità, di rapporto che la mafia cerca proprio con la politica, in particolare con la politica delle Istituzioni. Abbiamo appreso in questi anni che la mafia non è un fenomeno che riguarda esclusivamente il Sud Italia, ma riguarda ormai tutto il nostro Paese e anche il Nord Est, il nostro territorio, nel quale la mafia cerca di infiltrarsi soprattutto nel tessuto economico, offrendo servizi a basso costo, soprattutto in particolari settori come il riciclaggio dei rifiuti oppure con la fornitura di materiali a basso costo o manovalanza a basso costo. Per questo è importante che la politica possa in qualche modo assumersi l’impegno di sorvegliare, di combattere con tutte le armi che ha a disposizione qualsiasi tentativo di infiltrazione mafiosa nella nostra società e nelle nostre Istituzioni. Serate come questa rappresentano una grande opportunità e un grande apporto alla conoscenza del fenomeno mafioso, fondamentale per contrastare quella è stata definita la zona grigia dell’indifferenza e per poter far sentire meno soli uomini come Nino Di Matteo che ogni giorno combattono la loro battaglia". Per concludere, il sindaco aggiunge che "un sentito ringraziamento va a tutti gli uomini delle scorte poiché anche loro sono una parte fondamentale della lotta alla mafia".
Ad intervenire all’evento anche il Prefetto di Trieste Annapaola Porzio, secondo la quale le parole di apertura dei ragazzi hanno espresso pienamente il senso di questa serata. "Insieme a noi che rappresentiamo le Istituzioni e cerchiamo di fare del nostro meglio ci sono tantissime persone che ci sostengono e che sostengono le Forze dell’Ordine e tutti quanti siamo uniti in questo sforzo comune per rendere questo nostro Paese migliore".  
A seguito di questi interventi, prende la parola il coordinatore nazionale di Libera Informazione, il giornalista Lorenzo Frigerio, moderatore della serata, che, unendosi ai ringraziamenti, afferma che "questo cammino va avanti da alcuni anni, da quando con la famiglia Cosina abbiamo deciso di avviare questo percorso". Spiega Frigerio che è stato molto difficile per la famiglia Cosina vivere questa perdita che ha subito e questo dolore perché la strage era stata a Palermo e "ci si dimenticava sempre di un poliziotto che da Trieste aveva preso armi e bagagli e se n’era andato a Palermo per incontrare la morte. Allora all’inizio non è stato semplice, non capivamo bene le ragioni, ma credo che quello che stasera hanno testimoniato i ragazzi e le ragazze di Libera sia una risposta migliore alla fatica di questo cammino, sono davvero loro che ci aiutano a comprendere come avesse visto lungo Paolo Borsellino: la lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale, morale, che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità. Con parole pronunciate pochi giorni prima di essere ucciso, che fanno parte di un testamento spirituale molto ricco. E con Nino Di Matteo questa sera vogliamo ripercorrere un po’ questo lungo periodo che ci separa da quel 1992. Si dice che in queste situazioni l’ospite non ha bisogno di presentazioni, ma io credo che oggi più che mai vada ricordato che Nino Di Matteo è impegnato sul fronte del contrasto alla criminalità organizzata da più di vent’anni, dapprima a Caltanissetta, oggi a Palermo, e lo sta facendo in situazioni non sempre facili poiché, quando si affronta un nemico insidioso, difficile, come la mafia, ci si aspetta sempre di trovarlo di fronte e tutte le attenzioni vanno nel costruire le difese e nell’attaccare questo nemico che sta di fronte e diventa difficile invece doversi difendere dagli attacchi che avvengono alle spalle. E lui ha dovuto subire in questi anni e sta subendo ancora questi attacchi che arrivano spesso e volentieri da persone, da Istituzioni che dovrebbero essere con lui dalla stessa parte della barricata, invece si dimenticano questo. Quello di Muggia era un appuntamento rimandato ed io sono particolarmente grato al dottor Di Matteo perché è intervenuto quest’anno seppur sia un momento non facile anche dal punto di vista professionale, dove addirittura è stato messo in discussione, ma non motivando, una mancata designazione in sede di Procura Nazionale Antimafia dove sicuramente avrebbe potuto portare un contributo importante. Qualcuno ha detto anche, per sminuire questa sua richiesta, che si è trattato di un modo per fuggire da Palermo. Sono parole che abbiamo già sentito in passato riferite ad altri magistrati e ancora non si è capito che queste persone non fuggono da Palermo, poiché amano Palermo, e andare in Procura Nazionale Antimafia avrebbe significato soltanto intensificare l’impegno che da decenni sta approfondendo, appunto, a Palermo. E allora lo ringrazio per questo e partiamo da quel 19 luglio  perché non sempre abbiamo posto attenzione a quello che è successo". Il 1992 è stato un anno particolare, infatti "57 giorni prima era stato ucciso un altro magistrato, Giovanni Falcone, assieme a sua moglie, anche lei magistrato, e con tre agenti di scorta. E quell’anno si era aperto con altre due date importanti, che ci dimentichiamo sempre, ma che influenzeranno non soltanto quel ’92 e quello che succederà, ma credo ancora la storia odierna. Il 30 gennaio del 1992 la Corte di Cassazione mette il timbro definitivo al maxiprocesso, cioè a quel lavoro immane che Rocco Chinnici prima e poi Nino Caponnetto, assieme a Falcone e Borsellino avevano costruito. Lo Stato per la prima volta riconosce l’esistenza della mafia in quanto organizzazione e quindi le pene che vengono erogate sono la dimostrazione che il crimine non paga, che quel fenomeno che per decenni
era rimasto coperto da quella nuvola di indeterminatezza in realtà era un soggetto molto forte sul panorama italiano e lì si scatena quella stagione stragista di cui sono protagonisti Riina e Provenzano. Forse era destino che proprio oggi morisse Provenzano che si è portato sicuramente alcuni segreti con sé nella tomba. Però in quel momento era uno degli artefici di quella strategia stragista. E un’altra data altrettanto importante, che abbiamo sempre legato meno alle vicende di mafia ma che io credo c’entri molto per quanto riguarda l’altra faccia della medaglia, vale a dire la corruzione e mi riferisco al 17 febbraio 1992, quando altri magistrati, a Milano, nell’ambito di un lavoro che stava scoperchiando quella che poi verrà chiamata Tangentopoli, mettono le manette a Mario Chiesa, un mariuolo disse Craxi, la mela marcia del cestino. Abbiamo visto poi quanto fosse marcio quel cestino. Quelle sono le date che preparano le due stragi ed è un percorso che noi dobbiamo faticosamente cercare di tenere insieme perché dobbiamo sicuramente scontare un difetto di informazione e di comunicazione. Siamo tutti pronti a scattare con le telecamere, con i flash e con i taccuini quando ci sono degli arresti, quando c’è una conferenza stampa, ma quando poi c’è un processo complicato che nasce da quegli arresti e sarebbe importante seguirlo ce ne dimentichiamo. Il risultato è che tutte queste vicende restano appese lì, senza capo e senza coda. Dottor Di Matteo, perché 57 giorni dopo Falcone viene ucciso Borsellino? Cosa significa quel 19 luglio del ’92 per la storia del nostro Paese?". Così, tra l’incessante frinire delle cicale nonostante l’ora tarda ed un imminente temporale, le signore con i loro ventagli cercano di smuovere l’aria incandescente, tanto da bruciare i polmoni, mentre con estrema umiltà Antonino Di Matteo risponde alla richiesta di Frigerio, e prima di raccontare fatti roventi quanto l’aria che respiriamo, afferma che, per lui, prendere la parola in questi giorni, a Muggia, che è stata la città di Walter Cosina, è "un onore, ma anche un’emozione ed una responsabilità". "Non ho potuto sottrarmi a questa responsabilità soprattutto per una consapevolezza: le commemorazioni di oggi avranno un senso solo se da domani saranno sostenute dall’impegno, dalla passione civile, dal coraggio che ogni giorno ciascuno nel proprio ruolo deve dimostrare. Non ho voluto sottrarmi all’emozione che vivo in questo momento innanzitutto perché sento il bisogno sincero di ringraziare da cittadino, prima ancora che da magistrato, quei cittadini, che per fortuna sono tanti, che continuano a dare quotidiana testimonianza di amore per la giustizia, per la democrazia, per la Costituzione, per il nostro Paese. E tanti sono i cittadini che riconoscendo in Paolo Borsellino l’incarnazione di quei sentimenti di amore e di libertà cercano di conservarne e tramandarne la memoria. Per questo tanti cittadini si pongono a scudo di quei sacrosanti valori contro quei numerosi soggetti che anche oggi purtroppo anche nelle Istituzioni e nella politica continuano a calpestare e a offendere quei valori con l’arroganza dei prepotenti, con l’arroganza degli impuniti". Quei cittadini che riconoscono coloro che ancora si battono per cercare la verità vogliono difenderli, ancor prima che dalle insidie della violenza mafiosa, da quel muro di gomma dell’indifferenza anche istituzionale, dal pericolo dell’isolamento e della delegittimazione che, "oggi come ieri, si nutre di silenzi colpevoli, insinuazioni meschine, ostacoli e tranelli costantemente e abilmente predisposti per arginare quell’ansia di verità che è rimasta patrimonio di pochi. Sono qui per dirvi che voi avete il sacrosanto diritto ma anche il dovere di continuare a chiedere a noi magistrati tutta la verità sulla strage di Via D’Amelio, ricordandoci che abbiamo il dovere etico e morale di continuare a cercarla anche nei momenti in cui, come questo che stiamo vivendo, ci rendiamo conto amaramente di quanto quel cammino costi sempre più lacrime e sangue a chi non ha paura di percorrerlo anche quando finisce per incrociare il labirinto del potere. Non stancatevi mai di pretendere la verità sulle tante pagine ancora oscure dello stragismo in Italia, sulle collusioni tra la mafia e il potere ufficiale, delle mediazioni purtroppo non isolate tra il potere istituzionale e i poteri criminali". Per fare ciò è necessario "rispettare la verità e continuare a declamarla anche quando può apparire impopolare o sconveniente" poiché di essa, come ci ha insegnato Paolo Borsellino, non bisogna avere mai paura. Per esempio, "non dobbiamo avere paura a ricordare che affermano il falso i tanti che ripetono che i processi celebratisi a Caltanissetta sulle stragi, e su quella di Via D’Amelio in particolare, hanno portato ad un nulla di fatto: fingono di ignorare che ventidue persone sono state definitivamente condannate senza nessun tipo di discussione di quelle condanne per concorso in strage e mi riferisco alla strage di Via D’Amelio. Molti fingono di ignorare che proprio quel lavoro di tanti magistrati abbia consentito che venissero già allora alla luce i tanti e concreti elementi che oggi ci portano ad affermare che quella di Via D’Amelio non fu soltanto una strage di mafia e che il movente non era certamente esclusivamente legato ad una vendetta mafiosa nei confronti del giudice scaturita dalla sentenza del maxiprocesso". L’errore di ritenere che non sia stato fatto nulla "porta ad un disfattismo e all’impotenza rispetto alla possibilità di accertare tutta la verità". La verità accertata sino ad ora è una verità parziale, dato che riguarda soltanto gli esecutori materiali appartenenti a Cosa Nostra. "E una verità parziale è incompleta e, quindi, è una verità negata". Non fu soltanto una strage di mafia e bisogna avere il coraggio di percorrere quella strada "per capire quali sono stati, oltre i mandanti interni a Cosa Nostra, i mandanti esterni e quali sono i moventi ancora oscuri, diversi dalla vendetta nei confronti del giudice che aveva combattuto Cosa Nostra", poiché "in un delitto eccellente non c’è mai un movente unico e tanto meno quel movente corrisponde semplicemente ad una vendetta da parte dei mafiosi". Infatti, si tratta "sempre di delitti a movente complesso", ossia l’aspetto vendicativo si è spesso unito ad "un altro aspetto prevalente di natura preventiva rispetto al pericolo per l’azione che quel personaggio eccellente poteva dimostrare e che si è spesso unito ad un movente di tipo terroristico e politico", come emerge chiaramente "da quanto sancito nelle sentenze di Caltanissetta e nelle sentenze della Corte d’Assise di Firenze che si sono occupate delle stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano". La volontà di far luce sulle stragi è ormai di pochissimi servitori dello Stato, "spesso isolati e malvisti".  Spiega il dottor Di Matteo che in questi giorni molti fingeranno di commemorare Paolo Borsellino e gli altri servitori dello Stato e tra loro "ci saranno anche quelli che in realtà stanno lavorando contro l’accertamento della verità" al fine di "bloccare quei pochi investigatori e quei pochi giudici che mirano in alto, cercando di dare un nome ai mandanti esterni di quelle stragi". Questa volontà è talmente ostacolata dalla politica e dai media che l’opinione pubblica non sa nemmeno che persino in una sentenza della Corte d’Assise d’Appello (in nome del popolo italiano) di Firenze, che ha giudicato uno degli imputati per la strage di Via dei Georgofili del 1993, c’è scritto che una trattativa tra lo Stato e la mafia ci fu, iniziata da parte di alcune Istituzioni statuali che la cercarono in quel momento attraverso la mediazione di Vito Ciancimino e Riina, e quella trattativa finì per rafforzare il convincimento delle teste pensanti di Cosa Nostra che le bombe pagassero e che, quindi, conveniva fare ulteriori attentati oltre a quelli di Capaci e di Via D’Amelio per piegare definitivamente uno Stato che mostrava di voler scendere a patti con le volontà di Cosa Nostra". Coloro che definivano Falcone e Borsellino “giudici protagonisti e politicizzati” dopo che sono morti "e solo perché sono morti, fingono di rimpiangerli". La loro storia, ma soprattutto quella di Giovanni Falcone, "è di un eterno sconfitto. Quando arrivò nel pool antimafia di Palermo, intorno all’’81 -’82, il presidente della Corte d’Appello di Palermo chiamò Rocco Chinnici, che era il capo dell’Ufficio Istruzione dove lavorava Falcone, e gli disse: <con le vostre indagini state rovinando l’economia palermitana e siciliana. In particolare Falcone, con queste indagini sulle banche, sta disturbando i più grandi imprenditori. Riempilo di processetti!>, ovvero fallo occupare degli ordinari processi (il 29 luglio 1983 Chinnici venne fatto saltare in aria con la prima autobomba). Poi Falcone fu la mente principale del maxiprocesso". Gli stessi “benpensanti” di allora, che molte volte sono gli stessi di oggi, sussurravano, addirittura all’Alto Commissariato Antimafia e alla Presidenza del Consiglio, che Falcone se l’era messa da solo la bomba all’Addaura, il 21 giugno ’89, per fortificare la propria immagine di giudice coraggioso e integerrimo. Giovanni Falcone era il più esperto in materia di lotta alla mafia e quando presentò la domanda per divenire capo dell’Ufficio Istruzione, che all’epoca era il motore delle indagini giudiziarie, Antonino Meli, un anziano giudice che si era sempre occupato di diritto civile, fu convinto dai colleghi a presentarla a sua volta, poiché "bisognava fottere Falcone e ci riuscirono". Falcone, "per poter continuare a fare qualcosa contro la mafia, fu costretto ad andarsene da Palermo, ad accettare l’incarico da parte del ministro Martelli, di occuparsi, come direttore degli Affari Penali, di politica giudiziaria e criminale al Ministero della Giustizia". In molti sanno e continuano a preferire il silenzio, definibile "omertà di Stato, certi che quel silenzio continuerà a pagare con l’evoluzione di splendide carriere e con posizioni di sempre maggior potere acquisite proprio per il merito di aver taciuto". Vi sono dei dati di fatto su quanto accaduto negli ultimi anni, e, per citarne uno, "al culmine dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia, intercettando uno degli indagati, l’ex ministro degli Interni Mancino, sono state casualmente registrate delle conversazioni con l’allora capo dello Stato, il presidente Napolitano. La Presidenza della Repubblica ha sollevato un conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo, cioè ha fatto ricorso, credo per la prima volta nei confronti di un’autorità giudiziaria di procura, con l’accusa di aver invaso arbitrariamente il campo e aver usurpato i poteri di un’altra Istituzione, la più alta, la Presidenza della Repubblica". Non è stata conservata copia, ma continuano a cercare. "La stessa situazione era accaduta nell’ambito di un’indagine della Procura di Milano quando era presidente Scalfaro e quelle intercettazioni, a differenza di quanto era accaduto nel nostro caso, erano state trascritte dalla Polizia Giudiziaria, depositate dal Pubblico Ministero a disposizione di tutti i difensori ed erano andate a finire sulle pagine dei giornali. Non era successo nulla. Qualche mese prima delle intercettazioni Mancino-Napolitano, lo stesso Napolitano era stato intercettato dalla Procura di Firenze nell’ambito delle indagini che riguardavano la ricostruzione del post terremoto a L’Aquila e anche in quel caso le intercettazioni erano state trascritte benché penalmente irrilevanti e le aveva trasmesse al pm che le aveva depositate a favore di tutti gli avvocati e, regolarmente, erano andate a finire sulle pagine dei giornali. Neanche in quel caso fu sollevato il conflitto di attribuzione. Perché rispetto a casi uguali comportamenti diversi? Perché l’aver usurpato il potere del presidente della Repubblica è stato contestato soltanto alla Procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia? E’ un dato di fatto sancito dalle sentenze che molto probabilmente quella trattativa ebbe un ruolo moltiplicatore e di rafforzamento della volontà stragista di Riina e compagni". di matteo jpezzettaPertanto, la lotta alla mafia non è soltanto la lotta agli estorsori, ai trafficanti di droga, ai killer, all’individuazione dei patrimoni di provenienza mafiosa e il loro sequestro, seppur questa parte sia fondamentale, ma "è e deve essere qualcosa di ulteriore. La mafia, in particolare Cosa Nostra siciliana, che è l’unica organizzazione mafiosa che ha attaccato lo Stato con le stragi, ha nel suo DNA la ricerca del rapporto con il potere. Non è vero che Cosa Nostra è l’antistato che vuole necessariamente attaccare violentemente lo Stato. Da sempre Cosa Nostra ha tentato di esercitare un potere parallelo rispetto a quello statuale, ma con la tolleranza da parte delle Istituzioni. Ha cercato sempre l’accordo. I nostri morti eccellenti sono personaggi anomali in un sistema che accettava la mediazione, il compromesso, la tolleranza: Piersanti Mattarella viene ucciso perché è un’anomalia rispetto al sistema in cui all’epoca tanti politici si mettevano d’accordo con le famiglie mafiose più importanti per spartire i grandi appalti. Ninni Cassarà e gli altri poliziotti uccisi rappresentano in quel momento anch’essi un’anomalia rispetto ad un sistema in cui anche alti funzionari di Polizia, e lo dicono sentenze passate in giudicato, colludevano con la mafia. Falcone, Borsellino, Saetta, Chinnici rappresentano delle anomalie nel sistema giudiziario". La storia purtroppo non vede semplicemente i buoni che vengono uccisi dai cattivi, come ci spiega Di Matteo, in una netta contrapposizione tra le categorie: "ci sono i cattivi, cioè l’organizzazione criminale Cosa Nostra, ci sono i pochi veramente buoni e in mezzo c’è una massa indistinta, sostanzialmente di indifferenti, di opportunisti, di gente che privilegia - qualche volta anche all’interno delle Istituzioni, ma il mio è un discorso più generale - il proprio interesse personale, il proprio quieto vivere rispetto all’interesse di contrastare veramente la criminalità organizzata". A tal proposito, Lorenzo Frigerio ricorda le parole che Paolo Borsellino espresse a sua moglie Agnese poco prima di essere ucciso: "Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri". "La sentenza del maxi - continua Di Matteo - rappresenta la consacrazione di un filo di collusione tra i vertici di Cosa Nostra e lo Stato che si spezza. Il mancato aggiustamento del maxiprocesso, come affermano i mafiosi, significa che quella relazione con i vecchi politici che per decenni aveva caratterizzato il rapporto Cosa Nostra-Stato viene meno. E’ giudiziariamente provato che, ad un certo punto, già nel 1991, i capi della mafia hanno deciso che bisognava definitivamente rompere con i vecchi referenti politici che avevano in qualche modo tradito i patti, o non avevano saputo rispettare i patti per il maxiprocesso e costruire una nuova strada per trovare altri referenti politici". Riina disse Ci dobbiamo pulire i piedi. Dobbiamo ammazzare i rami secchi, cioè "quei politici che non avevano saputo mantenere i patti. La strategia comincia il 12 marzo del ’92 con l’omicidio di Salvo Lima a Palermo. Lima non era soltanto un europarlamentare, ma era il potere andreottiano in Sicilia, cioè nella regione dove la Democrazia Cristiana e soprattutto la corrente andreottiana prendeva più voti. Tanti mafiosi diventati poi collaboratori di giustizia che facevano parte della cupola ci hanno spiegato che era stata decisa l’eliminazione di altri uomini politici. Ad un certo punto interviene la trattativa: quei politici la cui esecuzione era già stata studiata con le fasi preparatorie vengono salvati e invece vengono uccisi Falcone e Borsellino con una cadenza che non ha pari nella storia di Cosa Nostra. Dopo l’ondata iniziale di sdegno e di emozione della Nazione per la strage di Capaci, nei 57 giorni che la separarono da quella di Via D’Amelio, la situazione per i mafiosi cominciava a calmarsi: in Parlamento stava prevalendo l’idea politica di non convertire in legge il decreto legge che aveva istituito il carcere duro per i mafiosi". Allora ci dobbiamo chiedere perché la mafia ha sentito la necessità di organizzare così in fretta l’attentato a Borsellino. "Borsellino era un magistrato entusiasta che, nonostante sapesse di poter saltare in aria da un momento all’altro, andava nelle scuole a parlare con i ragazzi. Una quindicina di giorni prima dell’attentato, partecipando ad una di queste assemblee con i giovani, affrontò il discorso del rapporto tra la mafia e la politica. Recentemente ho riascoltato quel suo intervento che mi ha colpito moltissimo. Sosteneva che il problema principale di questo Paese rispetto alla tematica del rapporto tra mafia e politica è che si afferma sempre che se non c’è una sentenza passata in giudicato di condanna del politico che ha avuto rapporti con la mafia, allora quel politico è pulito. Borsellino spiegava che si confonde il piano della responsabilità penale con il piano della responsabilità politica. Ascoltando questo intervento di Borsellino mi sono intristito perché la situazione oggi è peggiorata dato che ci sono delle sentenze definitive, come quella di Dell’Utri, che è stato il mediatore di un accordo, intervenuto nel 1974 e pienamente rispettato da entrambe le parti almeno fino al 1992, tra il gota della mafia siciliana e l’allora imprenditore Silvio Berlusconi, divenuto poi esponente politico. Sappiamo che fino ad un pario d’anni fa Berlusconi discuteva con l’attuale presidente del Consiglio di come riformare la Costituzione. In una sentenza definitiva c’è scritto che ha fatto un patto, rispettandolo almeno fino al 1992, di reciproca protezione con i capi della mafia". Quindi, in questo Paese "nemmeno le sentenze definitive riescono a far scattare meccanismi di responsabilità politica. In una relazione di minoranza della Commissione Parlamentare Antimafia del 1976, i cui primi firmatari furono Pio La Torre e Cesare Terranova, non a caso purtroppo esponenti politici poi uccisi, si fanno i nomi e si citano le prove dei rapporti collusivi tra chi comandava politicamente la Sicilia allora, i vari Gioia, Lima, Ciancimino, e i corleonesi di Luciano Liggio e Totò Riina. Quella politica aveva il coraggio della denuncia e di fare quei nomi quando ancora quei nomi e quelle denunce non c’erano nemmeno nei rapporti dei Carabinieri e tanto meno nelle sentenze della magistratura. Il politico, chi vive il territorio, arriva prima delle forze di polizia e della magistratura a capire se dietro un affare c’è un interesse mafioso e deve avere il coraggio di respingere quel tipo di rapporto. Purtroppo negli ultimi decenni la politica ha delegato la lotta alle mafie e alla mentalità mafiosa esclusivamente alla magistratura, salvo poi lamentarsi quando quest’ultima indaga sui rapporti tra mafia e politica. Nel nostro Paese si sta consolidando una sorta di accettazione della mentalità mafiosa: ci si imbatte in situazioni prima impensabili. Siamo abituati a pensare che l’imprenditore sia vittima della mafia", ma in realtà capita che sia l’imprenditore (magari del Nord Italia) a cercarla. C’è quindi una tendenza a servirsi della mafia "come una sorta di agenzia di servizi che può risolvere bene e presto i problemi di chi mafioso non è, non tenendo conto che dietro c’è il sangue di tanti e le lacrime di tanti altri". E a proposito di atteggiamenti da censurare, come ricordato da Frigerio in merito a certi esponenti delle Forze dell’Ordine, ci sono alcuni, a differenza per esempio di Eddie Cosina che ha dimostrato la propria fedeltà allo Stato sacrificando la vita, che si rifiutano di raccontare ciò che sanno. Tuttavia, come spiega Di Matteo, "fino a quando nello Stato o nel sistema investigativo ci sarà la capacità e la possibilità di fare queste indagini e questi processi, significa che lo Stato ha ancora gli anticorpi per reagire ad eventuali abusi di potere. Si parla della trattativa Stato-mafia come fosse un fenomeno accaduto nel ’92-’93, ma nella storia della mafia questi fenomeni di mediazioni e di accordi con le autorità istituzionali sono ben più antichi e anche molto importanti. Ci sono stati tanti momenti in cui si è avviata un’interlocuzione. Ogni qualvolta lo Stato ha aperto la porta ad un dialogo con le organizzazioni mafiose ha moltiplicato all’infinito la potenza di Cosa Nostra perché ha trattato l’organizzazione mafiosa come un suo pari e perché le ha attribuito un potere che è molto più tremendo delle armi, delle bombe e della ricchezza ed è il potere del ricatto nei confronti delle Istituzioni. Nella lotta alla mafia non ci può essere un momento di dialogo e di mediazione, sia anche per evitare un male maggiore, perché così facendo si riconosce all’organizzazione mafiosa la valenza di uno Stato e questo scatena poi le conseguenze che si sono verificate in passato". "La mafia stessa - prosegue il magistrato - trova sempre più conveniente, piuttosto che intimidire l’amministratore o il politico, comprarselo. Nei grandi affari illeciti ormai mafia e corruzione sono due facce della stessa medaglia, due segmenti di un unico sistema operativo. Ciò che preoccupa è, rispetto a questa sinergia criminale, una completa schizofrenia nel trattamento sanzionatorio previsto dalle leggi in vigore: abbiamo delle leggi giustamente rigorose che puniscono i fenomeni criminali mafiosi nel loro estrinsecarsi normale, e abbiamo un sistema legislativo che riguarda i fenomeni corruttivi che garantisce sostanziale impunità a chi compie abitualmente delitti contro la pubblica amministrazione".
"Come è sempre accaduto, la mafia, in particolare Cosa Nostra siciliana, cercherà sempre un dialogo con chi governa. Continuano a persistere margini troppo pericolosi di sottovalutazione, nella migliore delle ipotesi, del fenomeno criminale mafioso, soprattutto per quanto riguarda quel tipo di rapporti che la mafia intende sempre mantenere con la politica. Se noi abbiamo ancora oggi, nonostante una legge intervenuta non più di due anni fa, una previsione del reato di scambio politico-elettorale-mafioso con una pena prevista di molto inferiore a quella del 416 bis, significa che lo Stato non ha capito, o finge di non aver capito, che il consapevole rapporto di scambio politico-elettorale-mafioso tra un candidato e un capo mafia è molto più pericoloso rispetto all’appartenenza mafiosa dell’uomo d’onore del piccolo paese dell’interno della Sicilia. Eppure ancora oggi quella fattispecie viene considerata meno grave rispetto alla semplice appartenenza mafiosa. Ancora oggi c’è chi propone di abolire o attenuare il regime del 41 bis, non capendo che non è una punizione in più per il mafioso detenuto, ma è una necessità preventiva per evitare che - come è sempre accaduto prima - il detenuto continuasse a comandare dal carcere". Si tratta di segnali di sottovalutazione preoccupanti, "ma questo Paese non può più continuare a pensare che per non sottovalutare la mafia ci vogliano le bombe e il sangue dei morti sull’asfalto. Si dovrebbe finalmente capire che la lotta alla mafia è una priorità importante per tutto il Paese, perché la lotta alla mafia è una questione di democrazia. E la criminalità organizzata inquina la democrazia nelle sue fondamenta, nella vita quotidiana di ciascuno dei cittadini. Abbiamo la necessità di non perdere la capacità di indignarci, di trovare ciascuno nel suo ruolo e nell’osservanza delle regole la forza di reagire a questo stato di cose. Abbiamo il dovere di aiutare chi anche da morto, come Paolo Borsellino e chi è morto con lui, debba subire l’onta di veder calpestato il proprio sogno di giustizia, quel meraviglioso ideale che Borsellino condivideva con Giovanni Falcone, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e tanti tanti altri. Loro sono morti perché noi all’epoca non fummo abbastanza vivi, non vigilammo, non ci siamo scandalizzati all’ingiustizia, ci siamo accontentati dell’ipocrisia civile, abbiamo subito quel gioco delle mediazioni e degli accomodamenti che anche oggi ammorba l’aria del nostro Paese ed ostacola il lavoro di chi vuole tutta la verità. Fino a quando sarà possibile, noi continueremo a batterci con umiltà, con l’amara consapevolezza di una vergognosa solitudine istituzionale, ma con altrettanta tenacia e determinazione per la ricerca della verità. Lo faremo nelle aule della giustizia e per ciò che ci è consentito intervenendo nel dibattito pubblico per denunciare i gravi e concreti rischi che incombono sull’indipendenza della magistratura e quindi sul principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Dobbiamo cercare di farlo noi magistrati per primi, mantenendo sempre nel cuore l’esempio dei nostri morti, facendoci guidare esclusivamente dalla volontà di applicare i principi della nostra Costituzione con lo sguardo fisso alla meta della verità, con la consapevolezza che solo la ricerca della verità può legittimarci a commemorare chi è morto dopo aver combattuto una battaglia giusta di libertà, di verità e di democrazia. E’ l’unico modo per onorare quella toga che hanno indossato prima di noi i tanti colleghi uccisi, ma anche per tutti i cittadini per restare veramente vicini a chi come i familiari di Walter Cosina ha vissuto direttamente sulla propria pelle l’ingiustizia della violenza e della prepotenza mafiosa".  
Con queste parole il dottor Di Matteo termina il suo discorso cui segue una standing ovation estremamente calorosa. Per concludere la serata il magistrato è a disposizione di tutti coloro desiderino parlargli e così abbiamo la possibilità di avvicinarci a lui, avvolti da quella sua energia fortissima che trasmette soltanto amore. E di puro amore si può sicuramente parlare nei confronti di chi svolge un lavoro come il suo, al servizio dello Stato e della collettività, per difendere i quali è disposto a sacrificare la propria vita.
Intanto, in questi stessi giorni, il M5S ha presentato una mozione urgente affinché il Comune di Muggia conferisca la cittadinanza onoraria a quest’uomo straordinario.

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