Le riflessioni di Salvo Vitale
di AMDuemila
Pino Maniaci è tornato a casa, a Partinico. In una conferenza stampa, prima, e in diretta al telegiornale, poi, ha dato le sue spiegazioni sulla vicenda che lo vede accusato di estorsione nei confronti dei sindaci di Partinico e Borgetto.
Per oltre venti giorni è stato lontano da Telejato. In questo tempo, con grande determinazione e forza, la figlia Letizia, i ragazzi, i collaboratori sono andati avanti per non dissipare quanto, faticosamente e con sacrificio, era stato creato. Hanno chiesto e continuano a chiedere verità su questo caso che ovviamente ha scosso l’intero universo dell’antimafia.
Ed è proprio su queste scosse, e sulle conseguenze che vi potranno essere, che ci si deve concentrare in questo momento per evitare di distruggere tutto. Il sistema mediatico è già entrato in atto nel tentativo di azzerare la storia, fare di tutta l’erba un fascio, arrivando persino a pensare all’abolizione della stessa parola antimafia.
Nel frattempo tra coloro che si sono battuti per evitare una chiusura prematura di Telejato c’è Salvo Vitale, storico amico e compagno di Peppino Impastato.
E’ proprio partendo dalle vicende di Pino Maniaci che Vitale torna a fare, nel suo editoriale, alcune riflessioni.
Ancora una volta viene sollevata l’ipotesi di un “complotto” che sarebbe stato ordito dalla Procura e dai carabinieri di Partinico, nei confronti dello stesso Maniaci (tanto che i legali del giornalista, Ingroia e Parrino, hanno annunciato di voler denunciare per fuga di notizie e diffamazione a mezzo stampa gli autori del video diffuso). Viene criticata apertamente la modalità e il metodo di esecuzione dell’ordinanza partendo dalla scelta di adottare la misura di prevenzione nei confronti del direttore di Telejato nella stessa operazione contro nove mafiosi di Borgetto.
Un’azione che, a suo dire, si inserirebbe in un contesto di campagna mediatica volta a demolire l’immagine, o meglio arrivare ad una “condanna prestabilita” dello stesso Maniaci.
Tralasciando questa ipotesi, che non trova fondamento nelle carte che dovranno essere valutate da un giudice, sicuramente il lavoro di Telejato resta nella storia. Vitale ricorda i “giorni e giorni con la telecamera in giro per documentare favori, abusi, disfunzioni, cattura di boss, sequestri e confische, manifestazioni, interviste alla gente comune, agli studenti,agli studiosi, ai fedeli, agli scettici”. Ricorda gli “imprenditori venuti in redazione per denunciare le ingiustizie nei loro confronti, in nome dell'antimafia”, “le interviste messe in onda a gente che, in nome dell'antimafia e per azione della legge aveva perso tutto, soprattutto il lavoro, ma che ci teneva a salvare almeno la dignità”, “le riprese al matrimonio della figlia di Totò Riina, di quelle per l'arresto dei Lo Piccolo, di quelle a Montagna dei Cavalli nel covo di Provenzano” e “i ragazzi con la telecamera in mano che vanno a fare le interviste e si ritrovano aggrediti e malmenati, anche da parte di coloro dei quali volevano trasmettere la voce e le idee”.
Salvo Vitale non fa distinzione tra l’antimafia di Telejato e quella di Pino Maniaci e si chiede “se di questa antimafia che usa il mezzo d'informazione televisivo come uno strumento per propagandare le iniziative di legalità, per far cambiare mentalità alla gente, per distruggere l'immagine di "uomo di rispetto" che il mafioso si porta addosso, per far conoscere le facce di malandrini, per diffondere i comunicati sull'operato delle forze dell'ordine, che denuncia le malefatte, anche le disfunzioni, da qualsiasi parte esse provengano, non ce n'è bisogno, qual'è l'antimafia giusta, di quale antimafia c'è bisogno?”.
Riflessione sul giornalismo
“Il giornalista - scrive Vitale - è uno strumento che può gonfiare o distruggere l'immagine e la credibilità di qualsiasi persona. Il sospetto, il ‘pare che…’ ‘si dice…’, ‘secondo voci di corridoio’ ‘negli ambienti bene informati gira voce che…’ sono premesse professionali indispensabili per poter dire ciò che non è provato, di cui non si hanno completi riscontri. A volte basta buttare un cerino acceso, basta ingenerare il sospetto”.
Secondo lo storico amico di Peppino Impastato al giornalismo d’assalto che non fa sconti a nessuno “spesse volte aggressivo e istintivo, sino a colpire la dignità della persona accusata, si contrappone quello di coloro che Maniaci chiama ‘porgitori di microfono’, pronti a scrivere un articolo col telecomando, magari a colpi di copia-incolla, dimentichi dei rischi e ormai incapaci di portare avanti un'inchiesta sul campo”.
Riflessione sulla politica e l’imprenditoria
Poi Vitale prosegue: “Fuori discussione l'antimafia dei politici: è passerella, vetrina, in qualche raro caso è rivisitazione della memoria, ma non lascia tracce operative. Una fiaccolata, un corteo, un'inaugurazione di una targa, un convegno e l'antimafia si esaurisce nella sua improduttiva doverosa formalità. Meno che mai è esente da dubbi l'antimafia degli imprenditori che dicono di non pagare il pizzo, che fanno convegni e invitano altri imprenditori a ribellarsi. Non so e lo lascio decidere a chi legge, se abbiamo bisogno dell'antimafia di questi giornalisti, di questi magistrati, di questi uomini politici, di questi imprenditori”.
Di quale antimafia abbiamo bisogno?
La domanda che resta chiara, ed indispensabile viene ribadita a più riprese. Vitale parla di “antimafia difficile”. Una definizione che risale a un convegno organizzato a Cinisi nel ventennale della morte di Peppino Impastato i cui atti furono pubblicati da Umberto Santino. “Allora - ricorda - ci si riferiva alla difficoltà di operare in un ambiente ostile e ostinatamente richiuso nella difesa dei suoi valori spesso arcaici. Certamente è difficile l'antimafia che si pratica nelle scuole. Con tutti i suoi limiti, con le ostilità di docenti che non vogliono ‘sottrarre’ ore di lezione e che si sentono quasi ‘derubati’ della loro presenza o ‘obbligati’ ad assicurarla darla quando sono annunciate iniziative che coinvolgono tutta la scuola, con l'atteggiamento spesso distaccato e menefreghista di buona parte degli studenti che accoglie tali iniziative solo per fare ‘vacanza’”.
E’ proprio qui, nelle scuole che si svolge il lavoro più importante. “Le scuole - sottolinea - sono un luogo naturale dell'antimafia, dove possono essere individuati e portati avanti gli elementi, i principi educativi per promuovere e realizzare una società in cui tecniche, metodi e strategie mafiose possano essere messi nell'angolo. Il principio dell'informazione e della comunicazione che, dal docente passa all'alunno, non è diverso da quello che dal giornale o dal teleschermo passa al lettore o al telespettatore. Si tratta, per il giornalista, di individuare contenuti deontologici e comportamentali da tenere come faro guida e di non scordare che si tratta di un mestiere a rischio. Soprattutto se, assieme alle persone di cui si parla c'è anche lo Stato, che progetta sino ad otto anni di carcere per la diffamazione a mezzo stampa, anziché accontentarsi, come nei paesi civili, di una rettifica o di una presa d'atto. In tal senso l'operato di Maniaci, tra le pressioni per un aiuto a una ragazza, individuata frettolosamente come la sua amante e tra l'oscura e ancora irrisolta vicenda dei cani uccisi, si configura penalmente irrilevante, ma eticamente problematica”.
L’antimafia sociale
Nella sua analisi Vitale parla anche di “antimafia sociale”, ovvero “quella che interessa i vari strati della società civile, che si pratica nei luoghi di lavoro, nelle manifestazioni per il lavoro o per i diritti civili, tra i senzatetto, in mezzo ai quartieri degradati della città o alle storie di violenza nascoste dentro le case dei paesi, quella che ci porta a diretto contatto con le vittime del sistema, con gli estorti, con i figli dei mafiosi, con i ragazzi che si trovano a scegliere se iniziare una carriera criminale veloce o la lenta ma onesta ricerca di un lavoro che non c’è”. “L’antimafia - prosegue - di chi si ribella al pizzo, denuncia gli estortori, ma si ritrova solo e, per colmo, con i beni sequestrati, grazie a una legge sulle misure di prevenzione che può consentire di travalicare i normali diritti del cittadino, anche sulla base di sospetti.
L'antimafia di coloro ai quali viene affidato un bene confiscato ai mafiosi e che devono studiare come renderlo attivo e produttivo. Attivo, se si tratta di luogo destinato ad utilità sociale, luogo d'incontro e di lavoro culturale comune, produttivo se si tratta di luogo da destinare ad attività economiche che possano realizzare la vittoria di un modello di gestione diverso da quello mafioso, nel rispetto delle garanzie di chi ci lavora o vi partecipa”.
Assalto all'antimafia
Secondo Vitale “da alcuni mesi c'è un attacco senza precedenti all'antimafia. L’attacco più violento è stato sferrato a Libera, alla gestione autoritaria di Don Ciotti, ad alcune disfunzioni al suo interno, al monopolio che essa detiene nell'assegnazione dei beni confiscati, al mancato rapporto tra quanto prodotto e quanto messo in vendita ecc. Non meno criticati i ragazzi di Addiopizzo che, attraverso un'agenzia di viaggio lucrerebbero su progetti di itinerari di turismo civile. Nel mirino ci sono in particolare alcuni imprenditori, Helg, Montante. Lo Bello, Catanzaro che sono finiti in inchieste giudiziarie a causa di relazioni con il mondo che hanno combattuto. Di tutto si fa un bel fascio e si tenta di dargli fuoco. Difficile dire le motivazioni di questo ‘obiettivo antimafia’”. Ed è a questo punto che si fa alcune domande: “Cosa c'è dietro queste manifestazioni critiche? Un'ipotesi provocatoria potrebbe essere quella della mafia nascosta nel nostro subconscio, legata a lontane origini mai cancellate, a messaggi sepolti, ma sempre attivi, per cui la mafia è nell'ordine naturale delle cose e l'antimafia rappresenta il suo sommovimento, un'ipotesi di ribellione rispetto a tutto quello che è stato sedimentato da secoli. Per dirla con Salvo, cioé con me, nel film "I cento passi": "E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo! Non perché fa paura, ma perché dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace! Noi siamo la mafia”. “L'altra ipotesi - prosegue - è quella del purismo: l'antimafia, nella sua sacralità, nella sua scelta di costruire un mondo nuovo, non può lasciarsi coinvolgere da tentazioni economiche non può essere ‘usata’ a fini di ‘lucro’, quasi che il denaro sia sporco, mentre c'è invece chi ne profitta per arricchirsi. Anche Telejato lo ha fatto nella convinzione, che l'antimafia non dovrebbe diventare affare”.
Infine conclude lanciando l’allarme sul pericolo più grande che si manifesta nel tentativo di “smontare l’antimafia”. “Vengono fuori voci - aggiunge - spesso messe in giro ad arte, particolarmente da chi non ha tagliato il cordone ombelicale con la sua "mafia sommersa", di finanziamenti di cui i destinatari si sarebbero appropriati, di fondi male usati e senza il conseguimento degli obiettivi, di soldi chiesti in cambio di prestazioni le cui motivazioni erano educative, di protagonismo, di millantato credito, di testimonianze di presenze e di azioni e collaborazioni che non ci sono state ed altro. L'intenzione, che qualcuno teorizza è di rifondare l'antimafia, di reimpostarla su una ‘sacralità’ che nulla a da spartire con l'altra ipotesi più concreta, ovvero di come l'economia può ripartire con un corretto uso degli strumenti della legalità. Il pericolo nascosto, la destinazione finale di queste critiche è di smontare l'antimafia, di prospettarla come un'emergenza ormai inutile,di lasciare tutto in mano allo stato e ai suoi rappresentanti, gli unici deputati ad agire. In pratica, smontare l'antimafia per lasciare la mafia: se così è non ci sto e credo che non ci stiano tanti altri. Migliaia di altri...”.
Foto © Paolo Bassani