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montagna longa c scafididi Salvo Ricco
La tragedia di Montagna Longa e la scomparsa di Eleonora Fais, che visse nel ricordo della sorella e nella speranza di trovare una verità impossibile. Io la conoscevo bene. E la ricordo così.

“Chi dice che davanti a una tragedia le famiglie si uniscono? Per la mia non è stato così. Anni di sofferenza mentale e fisica, anni in cui era difficile pure ingoiare cibo, abbracciare qualcuno. Una notte sognai mia sorella che mi esortava a continuare nella ricerca della verità. Non mi sono mai fermata. La mia colpa? Quella di non aver visto il corpo di Angela”.

A parlare era Eleonora Fais, in una delle interminabili telefonate. Per mesi ci siamo sentiti, ci siamo visti. Poi un vuoto durato un paio di anni. Adesso che ho saputo della sua morte, il vuoto si è fatto enorme. E dentro di me c’è un senso di colpa, come se avessi fallito nella missione di aiutarla a trovare la verità.

L’ho conosciuta un poco alla volta, e ho capito che dietro l’armatura della diffidenza c’era una donna eccezionale, dalla cultura infinita, segnata per sempre da una tragedia che le aveva tolto tanto. Fui io a cercarla, nel 2010. E se prima la sua storia mi sembrava maledettamente incredibile – così come le parole che usava: complotto, fascisti, missili, bomba rudimentale – col passare dei mesi mi accorsi che più andavo avanti e più mi sentivo coinvolto. Ci sentivamo coinvolti, perché in questa piccola operazione per portare a galla un briciolo di verità avevo coinvolto anche un collega.

E più Eleonora raccontava la sua storia, più cresceva questa voglia di aiutarla.

Tutto combaciava. I dubbi si trasformavano in certezze. E il giorno che mi mostrò gli effetti personali di Angela, recuperati in quella montagna maledetta, il mio sangue si gelò. Avevo voglia di piangere. Lei, emozionata, teneva fra le mani quei piccoli oggetti semibruciati che appartenevano alla vita quotidiana di sua sorella.

Ogni piccola tessera in più di un puzzle interminabile sapeva di vittoria. A volte era demoralizzata, a volte lo ero io e, cosa incredibile, era lei a tirarmi su. Un piccolo successo, un piccolo passo avanti era visto come un balzo. Come quel giorno che le dissi di aver scoperto che, nel ’72, a Massa Carrara, all’indirizzo segnato sulla lettera del fantomatico senatore Cotignoli (che scrisse di un complotto contro alcuni personaggi che erano a bordo dell’aereo) corrispondeva una casa diroccata, dove molto tempo prima aveva abitato l’avvocato difensore di Ovidio Bompressi, militante di Lotta Continua e condannato per l’omicidio del commissario Calabresi.

Per lei fu come una luce che irradiò quella parte della sua storia che richiamava al complotto nel periodo buio degli anni di piombo. Comunista originale, Eleonora. La sera della tragedia, nei pressi di viale Lazio, stava attaccando i manifesti per il comizio del partito comunista che si sarebbe tenuto l’indomani in città. Vide passare numerose macchine della polizia a sirene spiegate, ambulanze. Mi disse che ebbe come un presentimento. Un paio d’ore dopo la sua vita cambiò per sempre. Molti anni dopo cambiò anche la mia.

Il ricordo della tragedia: 5 maggio 1972. Alle 22.20 la torre di controllo dell’aeroporto di Punta Raisi perde il contatto con il DC 8 dell’Itavia. A bordo ci sono 186 persone, compreso il personale. Due minuti più tardi il boato. Si vedono le fiamme sopra il promontorio che abbraccia i paesi di Cinisi e Carini, e che guarda, come una sentinella, la pista di atterraggio.

Montagna Longa ha la sua croce, quasi dimenticata. Ogni volta che dall’autostrada scorgiamo quel luogo di morte e mistero, dove si è consumata una delle tragedie più angoscianti della storia dell’aviazione civile italiana, sembra quasi impossibile che un aereo sia andato dritto verso la montagna. L’aereo non ha i freni. Davanti all’ostacolo ha ben poco da fare, tranne un’azione disperata del pilota. Se c’è tempo e spazio. La montagna ha così aperto le fauci al DC 8, inghiottendolo.
(23 febbraio 2016)

Tratto da: dipalermo.it

[Immagine: foto attribuita a "Scafidi" - Policy]

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