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dondero mario ppdi Giuseppe Buondonno
Una vita di scatto. Lacrime e sorrisi ieri a Fermo. L’abbraccio di parenti e compagni di avventura al fotografo, il "nostro" fotografo, che con il suo sguardo ci ha aiutato a capire il mondo e le relazioni umane.

È gremita fino all’inverosimile la Sala dei Ritratti, questo luogo della storia civile e culturale della città dove Mario Dondero aveva scelto di vivere, trent’anni fa, e che ieri lo ha abbracciato; ma la gente straripa fuori, sulla bella scalinata rinascimentale e in quella Piazza del Popolo dove era impossibile passeggiare con lui, senza fermarsi ogni due metri a parlare con qualcuno.

Ci sono le persone semplici, tante, e sarebbe davvero difficile trovarne qualcuna che lui non abbia fotografato o che non abbia un racconto, un aneddoto, un ricordo tenero e vivo da custodire.

Da questa stessa sala, sei mesi fa, Luciana Castellina l’ha salutato, dopo essere venuta a trovarlo in ospedale. Castellina che, nel suo messaggio, ieri, ricorda una foto della Grecia di cinquant’anni fa, quella di oggi e la capacità dei suoi scatti, di essere storia e futuro. Sempre qui, e sempre con un popolo intorno, quasi due anni fa, con lui che sembrava ringiovanito, insieme a Bertinotti ed Emanuele Giordana, abbiamo presentato l’avvio della digitalizzazione del suo archivio, ad opera della Fototeca provinciale di Fermo.

Per due giorni, a Petritoli dove Mario si è spento, e ieri mattina qui, un flusso continuo di persone a salutarlo e ad abbracciare Laura Strappa, la compagna, la donna gentile ed autorevole che gli è stata vicina in questi anni; tutti quelli che lo amano, cioè, praticamente, tutti quelli che l’hanno conosciuto. In questo pomeriggio, di lacrime e di sorrisi, ci sono i figli – Elisa, Bruno e Maddalena col nipotino Leonardo – c’è una parte importante della fotografia italiana: da Uliano Lucas a Fausto Giacone, da Francesco Cito a Tano D’Amico, a Melina Mulas, a Enzo Apicella; c’è Claudio Bassi (il sapiente stampatore delle sue foto) e i fotografi fermani e marchigiani, a cominciare da Umberto Bufalini, la sua ombra amorevole in tutti questi anni; e quelli che non sono riusciti a venire hanno scritto e lo hanno salutato da lontano; c’è Marco Cruciani (che per cinque anni ha filmato la sua vita e i suoi viaggi e li ha raccolti in un film bellissimo, Calma e gesso); ci sono giornalisti amici, come Valerio Pellizzari e Lorenzo Pavolini. C’è questo giornale, il suo giornale – con Valentino Parlato, Tommaso Di Francesco, Giuliana Sgrena, Mario Boccia e tanta parte della sezione grafica; compagni e amici di una vita straordinaria. Mentre i volontari di Emergency raccolgono fondi, invece dei fiori, sotto la bandiera dell’Anpi (di cui Mario, giovane partigiano in Val d’Ossola, era, a Fermo Presidente onorario) e mentre scorrono le sue foto, lo abbiamo salutato.

Il Sindaco e il Prefetto di Fermo (amici anche loro, come sbagliarsi?) saluti autentici e commossi, Romano Folicaldi, medico e fotografo, tra i primi in città ad averlo conosciuto, Uliano Lucas che dagli anni del «Giamaica» ne ha condiviso la storia umana e la militanza fotografica e ricorda «l’etica di uomini liberi» e la fatica di quegli anni bui in cui quei reporter e quegli uomini sono stati una finestra critica sul mondo; chi scrive e, naturalmente, Laura e il figlio Bruno.

Saluti in cui, come la sua figura imponeva e consentiva, non è possibile distinguere la consapevolezza del valore intellettuale e civile del suo lavoro, dalla dolce ed elegante vitalità dell’uomo, o dalla instancabile passione del militante. Ha detto Laura Strappa, che se lui avesse potuto fotografare Parigi, dopo il Bataclan, avrebbe immortalato il ritrovarsi, il ritorno alla vita; quella vita che Mario ha amato fino a che ha potuto, prima che la malattia lo costringesse a riposarsi dei tanti chilometri percorsi lasciando una traccia profonda di umanità. Una vita, ha detto il figlio, Bruno (il cui fascino – noterà Sandra Amurri – ricorda così tanto suo padre) che non si poteva immaginare più piena; perché lui, «fotografo vagante», all’improvviso spariva, perché «faceva un salto» all’altro capo del mondo.

Bruno che – con un meraviglioso italiano dall’accento francese – ricorda che Fermo detiene, con Parigi, il primato della sua rara «stanzialità». Ancora, Tommaso Di Francesco, che sottolinea come in quella sala vi sia probabilmente la più alta concentrazione, oltre che di fotografi, anche di lettori del manifesto; e, prima di leggere un epigramma ironico e dolce, ricorda come le sue foto hanno la capacità di considerare soggetti vivi le persone e le cose; Giuliana Sgrena racconta della foto di Mario che, durante il suo rapimento e dopo la sua liberazione, l’ha accompagnata nei giornali di mezzo mondo (tanto che scherzavano insieme, sul fatto che, se avesse avuto i diritti sarebbe diventata ricca), ma che, soprattutto, ricorda come Mario, il suo lavoro, la sua stessa esistenza, ci insegnino che dobbiamo «restare umani».

Lo hanno salutato, infine, Zeno Tentella (che, con Danilo Antolini, alla metà degli anni 80, conobbero Mario e lo fecero innamorare di Fermo) e Angelo Ferracuti, che non riesce a parlarne se non al presente: «È una gran bella storia d’amore, quella tra noi e Mario».

Lo hanno salutato, soprattutto, i tanti volti dei suoi scatti – famosi o ignoti che fossero – che il comunismo donderiano considerava, prima di tutto, persone e protagonisti della storia; quegli scatti che sono un ponte vivo – capace di far scorrere idee e sentimenti – tra il Novecento e questo tempo brutto ed incerto.

È anche per la freschezza di quelle immagini e della sua persona, che quando il bandoneon di Daniele Di Bonaventura ha intonato l’Internazionale e, al cimitero (prima che Mario fosse adagiato a terra, non lontano da sua moglie Annie) i giovani musicisti del «Battaglione Batà» hanno suonato Bella ciao, sono convinto che tutti noi, come avrebbe fatto lui, abbiamo pensato più al futuro che al passato. E lo abbiamo immaginato lì, tra noi, che cantava, baciava tutti e fotografava.

Non avevo mai scritto, prima d’ora, una cronaca giornalistica (e sicuramente si vede); non avrei mai pensato di doverlo fare per il funerale di Mario (che, per tutti noi, è un ossimoro). Ho guardato gli occhi lucidi di Pacifico D’Ercoli (la persona che, più di tutti, ha lavorato e sta lavorando per l’Archivio Dondero) e ho visto che sarà infinitamente più triste e difficile farlo senza Mario; ma ancora più essenziale e c’è da sperare che le Istituzioni, ad ogni livello abbiano la stessa consapevolezza e lungimiranza che abbiamo avuto nell’avviare questo lavoro, perché si tratta di un patrimonio culturale e civile incalcolabile, pensare ai giovani che, nei prossimi decenni, potranno vedere il mondo con gli occhi e col cuore di Mario Dondero.

Tratto da: ilmanifesto.info

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