di Gianni Bazzoni
Il figlio di Paolo Borsellino racconta la storia del trasferimento forzato nell’isola dove il padre e Giovanni Falcone istruirono il maxi processo ai capi di Cosa Nostra
Sassari. Quella foto in bianco e nero di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sorridenti era stata posizionata all’ingresso del corpo di guardia del supercarcere di Fornelli, riaperto da poco. E i boss mafiosi, quando passavano, abbassavano lo sguardo per non vederla. La scelta era stata fatta dopo le stragi mafiose del 1992, quando vennero uccisi i due magistrati e nell’attentato di via D’Amelio - il 19 luglio - perse la vita anche Emanuela Loi, poliziotta sarda, prima donna a cadere in servizio.
Quell’immagine senza colori aveva un significato preciso, serviva soprattutto a ricordare che Falcone e Borsellino erano stati all’Asinara meno di un mese - nell’estate del 1985 - sette anni prima delle stragi per lavorare in sicurezza alla requisitoria del maxiprocesso contro i capi di Cosa Nostra.
Allora Manfredi Borsellino, figlio di Paolo, era un ragazzino poco più che tredicenne. E oggi che ne ha 44, ed è anche lui un servitore dello Stato (dirige il commissariato di polizia di Cefalù), a distanza di trent’anni ha accettato di ricordare per la prima volta quell’esperienza.
«Ricordo di avere trascorso quasi un mese in una sorta di paradiso terrestre e di essermi sentito protetto come poche volte nella vita. Credo che questa sensazione fosse comune anche ai miei genitori e alle mie sorelle. Non avevo ancora compiuto 14 anni per cui, rispetto a Lucia, avvertii meno il peso di quella vacanza forzata, direi quasi di deportazione».
Accadde tutto in fretta, vi trovaste nell’insolita situazione di convivere in un’isola-carcere popolata anche di mafiosi...
«E' una esperienza che già allora segnò indelebilmente oltre a mia sorella Lucia anche il sottoscritto e la più piccola Fiammetta. No, non era tanto la presenza sulla stessa isola di pericolosi criminali (comunque rinchiusi in strutture inaccessibili) a turbarci, bensì l’assoluto isolamento in cui eravamo costretti».
Qual’era lo stato d’animo?
«Ci adattammo presto all’isolamento e capimmo che (allora) le istituzioni, soprattutto quelle romane, ci erano vicine. Mi piace ricordare la figura di Nino Caponnetto (il capo del pool antimafia, ndc), senza il quale quello che passerà alla storia come il maxiprocesso non si sarebbe mai celebrato. Ma soprattutto nostro padre e Giovanni Falcone avrebbero perso la vita già allora. Fu lui, infatti, a volere (e organizzare) fortemente quel tempestivo trasferimento sull’isola, proteggendo i due giudici come fossero suoi figli. Questa figura non è più esistita e chi nell’estate del 1992 avrebbe potuto - oltre che dovuto - adottare decisioni drastiche per salvare la vita a nostro padre e non solo, non le adottò ma non fece nulla perché altri le adottassero».
Suo padre e Falcone non presero bene quel trasferimento. Lo considerarono una perdita di tempo che poteva mettere a rischio il maxiprocesso. E' vero?
«Mio padre all’inizio subì maggiormente quello spostamento improvviso, sapeva delle ripercussioni negative che avrebbe esercitato sulla primogenita e non avrebbe mai voluto strapparci ai nostri giochi e ai nostri amichetti. Con il passare dei giorni però si creò un clima speciale, ci sentivamo come a casa. Il luogo d’improvviso ci sembrò familiare e accogliente. E questo grazie all’allora direttore del carcere Francesco Massidda e a un agente di custodia, un ragazzo allora, Gianmaria Deriu, che non smetteremo mai di ringraziare per l’amore, la spontaneità e la professionalità con cui si prese cura di tutti noi. Nascondendo i suoi stessi disagi derivanti dalla lontananza dalla famiglia».
Alla fine il meno triste fu proprio lei?
«Gianmaria mi fece conoscere il mondo delle motociclette, ci salii sopra per la prima volta, abbozzai qualche percorso. Ero un bambino (lo sono ancora oggi per certi versi) molto curioso, ogni giorno che trascorrevo su quell’isola per me era un giorno nuovo, mai uguale agli altri. Ero affascinato dalla natura, dagli animali e dalla poca gente che l’abitava: persone semplici, schiette, che sul continente è difficile incrociare».
La targa della foresteria di Cala di Oliva con due frasi di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone
Non furono facili però quei giorni sull’isola-carcere, anche con Falcone...
«E' vero, ma con Giovanni Falcone a parte qualche screzio iniziale vi fu un rapporto di complicità, tanto che mio padre si assentò per qualche giorno rientrando con Lucia a Palermo e lui sentì quasi di farne le veci. Giovanni forse non era abituato per così tanti giorni a dividere lo stesso tetto e convivere con dei bambini, penso che poche volte nella vita si sentì di fare parte di una famiglia allargata come in quell’estate».
Lo Stato presentò il conto del soggiorno, 415.800 lire , lo ricorda?
«Nostro padre ci scherzava sù, raccontava l’episodio con ironia. Non mi meraviglia se non chiese il rimborso. D’altra parte era solito pagare di tasca propria il carburante delle autovetture blindate di Stato che, tra l’altro, sovente guidava di persona non avvalendosi di autisti».
E' mai tornato all’Asinara?
«No, non è più accaduto. Nei giorni scorsi però a Roma all’pre -apertura del Festival del cinema ho avuto modo di vedere l’anteprima del film “Era d’estate”, incentrato proprio su quel mese trascorso sull’isola. E' stato un momento molto emozionante, davvero un salto all’indietro di trent’anni. Lì ho rivisto Gianmaria Deriu, il brigadiere a cui eravano affidati: gli ho promesso che rimetterò piede all’Asinara portandoci i miei tre figli. Hanno visto il film in religioso silenzio e credo che i tempi siano maturi perché conoscano quell’isola e sappiano cosa ha rappresentato per loro padre».
Due ricordi su tutti, il più bello e il più brutto che si porta dietro a distanza di trent’anni...
«Il più bello quando eravamo riuniti intorno ad un tavolo per pranzo e cena, regnava una grande armonia e pareva veramente che ci si fosse dati appuntamento in un paradiso terrestre. Un paradiso dei giusti. Il più brutto lo anticipo al momento in cui fummo prelevati dalla villa dei nonni materni per essere portati in aeroporto e partire poi per l’Asinara. Eravamo frastornati, i vicini di casa piangevano come se non ci dovessero mai più vedere. Mio padre stesso, che pareva tenere sempre ogni situazione sotto controllo, lo vedevamo per la prima volta non padroneggiare l’evento. Insomma, brutti momenti, solo in parte compensati dai giorni che seguirono sull’isola».
(8 novembre 2015)
Tratto da: lanuovasardegna.gelocal.it