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galluccio-enza-bndi Enza Galluccio - 12 maggio 2015
Il Protocollo Farfalla - accordo segreto stipulato nel 2004 tra il Sisde, guidato dal generale Mario Mori, e il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, allora in mano a Giovanni Tinebra, per il libero accesso nelle carceri con detenuti al 41 bis - oggi è confermato in tutti i suoi risvolti anche dal pentito Vito Galatolo, durante l’udienza nell’aula bunker del processo di Palermo.
All’interno del carcere di Parma entravano e uscivano uomini del Ros e dei servizi. Parlavano un po’ con tutti, anche con il famoso ex medico Antonino Cinà, numero 164 nei “pizzini” di Provenzano e intermediario nonché portavoce durante la c.d. trattativa Stato-mafia.
Galatolo racconta anche di numerose visite già negli anni ’80 nei luoghi chiave di Cosa Nostra, da parte di uomini delle istituzioni e 007 - come Arnaldo La Barbera e l’innocentissimo Bruno Contrada, tanto per citarne alcuni - che si incontravano con nomi pesanti della mafia siciliana – come Nino Madonia, sempre per fare qualche nome – per scambi di informazioni e di denaro.
Per chiarire meglio, secondo la deposizione del pentito erano i boss a pagare per sapere.
Uno Stato parallelo a servizio della mafia, e una mafia che spesso scambiava favori con lo Stato con cui condivideva interessi di varia natura. Anche l’inquietante figura di “faccia da mostro”, ombra attiva in numerosi omicidi di uomini dello Stato, andava e veniva dalle proprietà mafiose.
Questa è la cronaca di una passato recente, con cui l’opinione pubblica fa ancora molta fatica non solo a confrontarsi, ma anche a credere che i fatti narrati siano realmente accaduti.
Ma la storia è più veloce del pensiero comune ed i fatti corrono carichi del loro bagaglio di scellerati intrecci e promesse di morte.

Così Galatolo, ancora una volta, conferma l’intenzione di eliminare il pm Nino di Matteo.
L’esplosivo sarebbe ancora a Palermo e il progetto di morte, che inizialmente doveva realizzarsi a Palazzo di Giustizia, sarebbe solo rinviato.
Di Matteo deve morire, così come a suo tempo doveva morire Antonio Ingroia. Questi magistrati hanno dato parecchio fastidio con le loro indagini e con i processi che sono riusciti a mettere in piedi.
Screditarli è stato facile; si sono prestati in molti per togliere loro autorevolezza e credibilità.
Da una parte si è agito a colpi di provvedimenti disciplinari con accuse che hanno dell’incredibile, dall’altra è stato compiuto uno stillicidio di delegittimazione ad opera di personaggi della politica e della cultura come Macaluso e Fiandaca…
Là dove la denigrazione verbale e a mezzo stampa non è riuscita pienamente, la pietra tombale più devastante nei confronti dei due Pm è stata posta dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con l’ormai famoso conflitto di attribuzione sollevato per le registrazioni delle telefonate intercorse tra l’imputato Nicola Mancino e lo stesso ex Presidente.  
A quel punto Ingroia capisce, ma non desiste e decide di percorrere un’altra strada. Più avanti è costretto a lasciare la magistratura perché messo alle strette. Nino Di Matteo resta, nonostante le minacce e la solitudine che più umilia chi crede nella giustizia e nello Stato.
Il pentito Galatolo ha parlato chiaro, la mafia è ancora soprattutto un braccio armato come nelle stragi del ’92 e del ’93, così come le menti sono ancora all’interno degli apparati delle istituzioni.
Intanto giunge la notizia che il bomb jammer, l’ormai noto dispositivo anti-attentato, è finalmente giunto a Palermo, ma per arrivare anche a Di Matteo manca una firma. Così, l’auto blindata che dovrebbe proteggere il Pm, giace parcheggiata da diversi giorni in attesa di un vero perché che chiarisca qualcosa.

In foto: Enza Galluccio

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