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lo-porto-giovannidi Salvo Vitale - 26 aprile 2015
Da alcuni giorni si discute animatamente sul caso di Giovanni Lo Porto, il cooperante palermitano rapito dai “terroristi” di Al Qaeda e ucciso in Pakistan tre mesi fa, assieme ad altre cinque persone, nel corso di un raid aereo di un drone  americano. I droni sono lo strumento scelto dagli Americani e controllato dalla CIA, per una sorta di guerra permanente al terrorismo: consentono di individuare i bersagli sospetti e di bombardarli con il minimo impiego di uomini e mezzi e senza bisogno di ricorrere a una vera e propria offensiva militare. Quello usato in questo settore è partito da una base nell’Afghanistan orientale, con l’autorizzazione e sotto il controllo del governo afghano. Dopo l’annuncio di Obama, che ha chiesto scusa per l’errore e promesso un risarcimento, tra gli strateghi dell’informazione e della politica italiani è scoppiato il finimondo e si è data la stura a una ridda di ipotesi: perché sono passati tre mesi prima di annunciare la morte? Quando Renzi è andato negli USA, Obama sapeva? E se sapeva perché non gliel’ha detto subito? Se glielo ha detto subito, perché Renzi non l’ha riferito subito (martedì) e ha aspettato il giorno dopo? Come hanno fatto gli americani ha identificare Lo Porto? Se, come dicono, con il DNA, chi aveva dato loro il campione di DNA di Lo Porto? Perché la CIA non ha indagato bene prima di bombardare? Forse perché non gliene importava niente dell’italiano? Ma c’era anche un americano.

Conclusione dei nostri acuti analisti è che siamo alle solite, che gli Italiani sono trattati a pesci in faccia, come al solito, e che non gli Americani non hanno alcun rispetto né per l’Italia né per il cooperante morto per portare aiuto umanitario. Insomma basta rispolverare un po’ di nazionalismo offeso, condendolo con vecchi giudizi al veleno sulla cooperazione internazionale, sostenere  che sarebbe meglio che questi cooperanti se ne stessero a casa, perché così mettono a repentaglio la propria vita e la sicurezza della loro nazione, generando problemi di ricerca, di riscatto, di sicurezza. Insomma la papardella che abbiamo già visto scattare in passato, specie quando si trattava di donne rapite e, per fortuna rilasciate. Tra “sciacalli” e “becchini”, il tutto alla ricerca di qualche disorientato consenso. In realtà il problema è più grave: non si può porre il tema del “rispetto” per l’Italia e per i suoi cittadini, quando questo rispetto non c’è, da parte degli Italiani, essenzialmente dei politici, nei confronti degli Italiani stessi che perdono la vita. Lo abbiamo visto con Vittorio Arrigoni, sulla cui morte è stata stesa una sorta di pelosa solidarietà, scomparsa il giorno dopo, lo vediamo con Lo Porto, nel momento in cui i vari gruppi politici hanno chiamato il governo a riferire subito in aula e non si sono presentati al dibattito: erano presenti solo in 35. Il padre di Lo Porto ha lamentato questo disinteresse nei confronti del figlio: come ucciderlo un’altra volta. Ma in realtà si può pretendere rispetto dagli americani, quando poi gli Italiani stessi non dimostrano rispetto  per i propri morti? E si può pretendere il rispetto degli stessi Italiani da parte di chi dovrebbe rappresentarli? Come dice un vecchio proverbio siciliano: “U rispettu è misuratu, cu lu porta l’avi purtatu”. La traduzione è superflua.

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