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mattarella-copyright-letizia-battagliadi Adriana Stazio - 6 febbraio 2015
Sul Corriere della Sera del 1 febbraio 2015 c’è un articolo a firma Giovanni Bianconi sull’omicidio Mattarella. Dobbiamo purtroppo registrare che anche tale vicenda viene utilizzata per propalare inesattezze sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino e - cosa ancora più grave - per suggerire una volontà depistatoria del teste chiave del processo sulla trattativa Stato-mafia.
Bianconi infatti scrive: “Vito Ciancimino invece cercò di attribuire l’omicidio a un improbabile terrorista rosso reclutato da Bontate (e il questore finse di credergli); teoria rinverdita di recente dalle dichiarazioni del figlio di «don Vito», Massimo Ciancimino, sul fantomatico «signor Franco». Con l’aggiunta degli immancabili servizi segreti.”
Non è vero che Massimo Ciancimino abbia confermato la tesi delle brigate rosse ed è quanto meno tendenzioso asserire che il figlio avrebbe “rinverdito” la teoria del padre. E’ importante precisarlo dato che la confidenza di Vito Ciancimino sul delitto Mattarella fatta al questore Immordino cui si riferisce Bianconi è passata alla storia giudiziaria come un depistaggio, sebbene come vedremo l’episodio non fu realmente chiarito e sebbene è alquanto provato che invece Immordino gli credette, eccome.
Nel verbale del 21 giugno 2008  reso alla Procura di Palermo leggiamo:

P.M.: […] ci sono state altre circostanze, altri fatti, altri avvenimenti in cui suo padre le disse, o per i quali suo padre le disse di avere avuto rapporti con i Servizi?
CIANCIMINO: Sì, in merito all’omicidio MATTARELLA.
P.M.1: Cioè?
CIANCIMINO: Mi disse che aveva avuto rapporti coi Servizi e aveva avuto anche incontri perché voleva spiegazioni visto l’anomalia, mio padre diceva, dell’esecuzione dell’On.
MATTARELLA, mio padre a sua volta anzi mi raccontò che aveva parlato con un poliziotto, forse con PURPI, gli aveva raccontato che secondo lui c’era la mano anche dei Servizi nell’omicidio MATTARELLA, che mi disse che ne aveva parlato con un poliziotto, col dottor PURPI sicuramente, gli aveva raccontato tutta sta storia che erano già in rappor…
P.M.1: Qual è l’anomalia secondo suo padre…
CIANCIMINO: L’anomalia, che si erano serviti di manovalanza romana legata alle, non so, ai brigatisti rossi, neri, non mi ricordo che colore era
P.M.1: E come faceva a esserne certo suo padre di chi lo fece?
CIANCIMINO: No, mio padre lo aveva appreso da questo personaggio. [il signor Franco N.d.R.]
P.M.1: Aveva appreso da questo personaggio…
CIANCIMINO: Da questo personaggio.
P.M.1: …che c’era stato il coinvolgimento dei…
CIANCIMINO: Sì, è stato uno scambio di favori a livello eh sull’omicidio dell’On. MATTARELLA e mio padre mi disse che di questo ne parlò credo con PURPI, con…

Aggiunge poi Ciancimino che il padre gli riferì che la cosa gli era stata confermata anche dal Provenzano e prosegue:
CIANCIMINO: Per cui mio padre poi ebbe la certezza che le sue tesi di un coinvolgimento dei Servizi, mio padre non si giustificava, certamente non poteva trovare giustificazione nell’assenza di manovalanza, non capiva e chiese spiegazione al PROVENZANO come mai in occasione di un eccidio così feroce, così eclatante, non si adoperava la prudenza anche di lasciare tutto in un territorio stagno, cioè quello che… non capisco (inc.) ciò è avvenuto, perché rendere partecipi e conoscen… e a conoscenza un’altra organizzazione che ha dei fini che sono completamente diversi dal vostro!
P.M.1: Però non lo seppe mai il perché!
CIANCIMINO: Il perché… no, no, gli fu detto che era uno scambio di favori.
P.M.: Da chi?
CIANCIMINO: Dal PROVENZANO.

Praticamente, secondo Massimo Ciancimino, il padre nel momento in cui ebbe la conferma dal Provenzano che la manovalanza usata per l’omicidio Mattarella non era stata mafiosa, ma si erano usati terroristi venuti da fuori, si convinse dei suoi sospetti che in quel delitto ci fosse un coinvolgimento dei servizi, in quanto riteneva anomalo per Cosa Nostra agire in questo modo.

Intanto, analizzando le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, va detto che quando i magistrati gli chiedono cosa sapesse dei rapporti coi servizi, lui risponde dicendo quello che suo padre gli aveva detto, senza sapere ovviamente se fosse vero o falso. Ricordiamo però il dato interessante e di novità che qui non si tratta di quanto Vito Ciancimino dichiarò all’AG o confidò a qualche poliziotto con intenti più o meno limpidi e consapevole degli effetti che avrebbe avuto. Qui si tratta semplicemente di confidenze fatte in privato al figlio, anni dopo i fatti. Ciò non significa necessariamente che gli abbia detto la verità: sappiamo anche dalle ultime risultanze delle indagini che gli ha tenuto nascoste molte più cose di quanto lo stesso Massimo pensasse e comunque non era un soggetto facile ad aprirsi, il figlio parla sempre delle “mezze frasi” con cui il padre gli rispondeva, rimanendo sempre evasivo. Ma sicuramente è importante tenere conto del contesto diverso da cui nascono queste informazioni.

Inoltre Massimo Ciancimino non parla di terroristi rossi, ma di terristi rossi o neri, non ricordando cosa gli disse il padre. E questo è interessante, è tutt’altro di quanto il padre avrebbe detto al questore Immordino. Vediamo perché.

Innanzitutto va chiarito l’episodio del colloquio tra Vito Ciancimino e il questore, poi andremo a vedere quali erano le prime ipotesi sul delitto Mattarella con cui si arrivò a processo, smentite poi da una sentenza che comunque ha lasciato quanto meno parecchie perplessità e punti oscuri, a partire dalla mancata individuazione degli esecutori materiali del delitto.

L’episodio del colloquio tra Immordino e Vito Ciancimino
Durante le indagini, i magistrati trovarono un appunto del SISMI riservatissimo del 15 maggio 1980 in cui si diceva che «il delitto Mattarella sarebbe stato concepito ed organizzato - sin dal 1979 - in ambienti mafiosi, ma eseguito da giovane "killer", mobilitato fuori dalla Sicilia e appartenente ad imprecisato gruppo terroristico, previa offerta di congruo sostegno in danaro e armi». Aggiungendo che il terrorista si sarebbe trovato ancora in Sicilia e sarebbe stato scaricato e fatto arrestare in modo da allentare la pressione dello Stato sulle cosche mafiose.

L’appunto fa riferimento anche ad un articolo uscito su Panorama in quei giorni dal titolo “Lo zampino di Sindona” in cui si asseriva che secondo una fonte del giornale “il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa sarebbe riuscito a individuare un terrorista che avrebbe materialmente ucciso l'uomo politico democristiano. Ma c'è molto di più. L'operazione non sarebbe stata fatta dai terroristi in proprio ma su commissione di alcuni emissari del clan mafioso siculo-americano collegato a Michele Sindona. La spiegazione politica di questo connubio ai limiti dell’incredibile sarebbe nella decisione di Sindona di destabilizzare l'Italia.” Un Italia “che stava andando a sinistra e aprendo ai comunisti”. Quindi secondo Panorama Mattarella sarebbe stato ucciso in quanto uomo appartenente al nuovo corso. Il settimanale concludeva dicendo che mentre per l’omicidio di Boris Giuliano era bastata manovalanza mafiosa, “per operazioni di gran livello come l’assassinio di Mattarella, si sarebbe ricorsi al terrorismo di «sinistra»”. Tale articolo era in un box a contorno di un grande articolo sull’operazione di polizia condotta il 4 maggio dal questore Immordino e dal capo della Mobile Impallomeni (tessera P2 n. 920), che coinvolgeva 59 persone accusate di associazione a delinquere (non c’era ancora il reato di associazione mafiosa) ritenute affiliate al gruppo mafioso siculo-americano formato dalle famiglie Spatola-Inzerillo-Gambino-Di Maggio, gruppo che aveva collegamenti con il faccendiere Michele Sindona. Tra gli arrestati il medico di Sindona, Joseph Miceli Crimi. Tra le accuse rivolte ad alcuni dei personaggi coinvolti nel blitz vi era quella dell’omicidio del capitano Basile. Furono gli stessi funzionari di polizia a rilasciare dichiarazioni in cui stabilivano un collegamento tra quegli arresti e l’omicidio Mattarella, collegamento che portava fino a Sindona e di cui parlò tutta la stampa con grande enfasi. Tra parentesi fu proprio quell’operazione a causare la morte del procuratore Gaetano Costa che si trovò isolato dai suoi stessi sostituti, in particolare dai titolari del fascicolo Giusto Sciacchitano e Luigi Croce, che si rifiutarono tutti di firmare le convalide degli arresti, costringendo lo stesso Costa a firmarli da solo. Dopo meno di due mesi sarà ammazzato.

La fonte dell’appunto del SISMI era Giovanni Ferrara, capo del centro SISDE di Palermo. Escusso dai magistrati, egli confermò e rivelò che a sua volta la sua fonte era il questore Immordino, con il quale avrebbe avuto un incontro riservato, in auto, la sera del 24 marzo 1980. Immordino gli avrebbe detto che Vito Ciacimino gli aveva riferito che il killer di Mattarella era un terrorista di sinistra che di lì a poco sarebbe stato fatto arrestare simulando un controllo casuale; gli avrebbe altresì detto che presto sarebbe tornato sulla scena politica in quanto la situazione a sua avviso stava mutando verso nuovi equilibri a lui più favorevoli. La circostanza che si trattasse di terroristi rossi e non neri parve a Ferrara poco credibileanche se la riportò nella nota da lui scritta il giorno dopo per il SISDE (in cui cita esplicitamente il questore di Palermo come sua fonte) mentre non compare nel successivo appunto del SISMI (che però fa riferimento anche all’articolo di Panorama).

Quindi il tutto sarebbe derivato da Vito Ciancimino? Immordino, escusso a sua volta, smentì su tutta la linea: smentì il colloquio in macchina con Ferrara e smentì che il Ciancimino gli avesse mai parlato dell’omicidio Mattarella, pur ammettendo di aver avuto un colloquio avente però ben altro oggetto, nel quale il politico democristiano gli avrebbe illustrato un suo memoriale lamentando di essere vittima di calunnie. L’ex questore disse anzi che riteneva il delitto Mattarella di matrice mafiosa, ma temeva un possibile depistaggio ad opera mafiosa verso i terroristi di sinistra, non escludendo una possibile soffiata per far arrestare qualche brigatista latitante a Palermo e di questo aveva parlato con vari collaboratori tra cui forse lo stesso Ferrara.

Anche Vito Ciancimino fu escusso e negò la circostanza, negò addirittura di ricordare il nome Immordino, che gli giungeva del tutto nuovo, confermando però di aver consegnato il suo memoriale a un questore che forse doveva essere questo Immordino.

Tutta la vicenda è raccontata nella corposa requisitoria scritta da Giovanni Falcone nel 1991 e riportata anche nell’ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio del processo sui delitti politici “Reina-Mattarella-La Torre-Di Salvo”. Il giudice non credette a Immordino e a Ciancimino, avanzando l’ipotesi che Immordino negava perché in difetto in quanto non aveva riferito nulla all’AG come avrebbe avuto l’obbligo di fare.

Quindi il colloquio Immordino-Ferrara venne ritenuto provato sia come fatto storico che nei contenuti, mentre sul colloquio Ciancimino-Immordino si avanzavano due ipotesi: o Immordino inventò il contenuto del colloquio con Ciancimino per accreditarsi al SISDE magari anche in vista del vicino pensionamento in polizia oppure è vero e allora Vito Ciancimino si rese protagonista di un depistaggio con un collegamento tra terrorismo rosso e clan Inzerillo organico alla mafia di Bontade nemico dei corleonesi, quindi ipotizzando un depistaggio fatto per favorire i corleonesi, ipotesi definita molto inquietante, dolendosi che non mai potrà aversi certezza dell’accaduto a causa dell’atteggiamento non collaborativo di Immordino.

In realtà però va detto che nelle note del SISMI e del SISDE così come nelle dichiarazioni di Giovanni Ferrara non si legge di un’attribuzione da parte di Ciancimino del delitto al clan Inzerillo: dalla stampa dell’epoca abbiamo solo testimonianza che questa era, al momento del blitz del 4 maggio 1980, l’ipotesi degli investigatori, di Immordino e Impallomeni, con ogni probabilità formatasi autonomamente. D’altra parte non erano gli unici a seguire la pista Inzerillo. Un episodio degno di nota fu quello del questore Nicolicchia (che prese il posto di Immordino a giugno, poi travolto di lì a poco come Impallomeni dallo scandalo P2) e di Bruno Contrada che nell’estate del 1980 cercarono con esito negativo di far riconoscere alla vedova Mattarella Salvatore Inzerillo come il killer, in base a un’"intuizione" dello stesso Nicolicchia. Fu depistaggio anche quello? Non sappiamo.

Comunque, il dato certo è che Vito Ciancimino, secondo quanto raccontato da Immordino a Ferrara, avrebbe solo parlato dell’utilizzo di terroristi rossi come esecutori materiali.

Oggi, grazie ai documenti forniti da Massimo Ciancimino, possiamo affermare con ulteriore certezza che effettivamente Vito Ciancimino parlò a Immordino del delitto Mattarella, in quanto nei suoi appunti si trova un riferimento al colloquio con Immordino negato davanti al giudice istruttore.
Nel testo dattiloscritto “Appunti per incontro. A futura memoria”, don Vito scrive: “Ho sempre dichiarato pubblicamente di conoscere il “grande architetto”. Eppure in quasi quindici anni nessuno dei notabili ha ritenuto importante ascoltarmi. Fin dai tempi del delitto Mattarella ho lanciato messaggi per poter essere ascoltato.” E a margine a mano scrive il nome “Immordino”.

Dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino abbiamo l’ulteriore conferma che il padre gli disse di aver parlato con qualcuno della polizia (forse Purpi), e in seguito, in altro interrogatorio, anche del colloquio con il questore Immordino: “queste erano le sue grande lamentele, fin dai tempi del delitto Mattarella mandai dei messaggi per essere ascoltato, mi raccontò di un episodio con Immordino, di aver lanciato abbocchi per poter parlare ma a dir poi fondamentalmente dice che il Immordino, è un cretino” (28.09.2010)

Inoltre il figlio di don Vito conferma nei suoi interrogatori che il padre era un confidente di Immordino.

Il supertestimone del processo sulla trattativa Stato-mafia fornisce anche una notizia in più e cioè che, a dire del padre, l’informazione sull’uso di manovalanza “romana” gli sarebbe venuta da ambienti dei servizi (il sig. Franco) e gli fu confermata dal Provenzano, quindi la fonte a monte sarebbe non più e non tanto solo Cosa Nostra, come era stato ipotizzato dal giudice, ma direttamente ambienti dei servizi segreti.

Quello che non sappiamo è se Vito Ciancimino parlò effettivamente di terroristi rossi e non di terroristi in generale o addirittura di terroristi neri. Certamente la convinzione di Immordino era che si trattasse di brigatisti rossi tanto che andò a riferirlo a Ferrara e quasi certamente al giornalista di Panorama. Partendo da questo abbiamo più possibilità: o Immordino “interpretò a modo suo” le confidenze di Vito Ciancimino (andrebbero capiti i motivi, forse Vito Ciancimino non era la sua unica fonte confidenziale?) o Vito Ciancimino depistò volontariamente anche qui per motivi da chiarire (ipotesi poco probabile a meno che non gli fosse stato detto che andava per qualche motivo messa in giro questa finta verità e quindi fu complice ed esecutore di un depistaggio) oppure a monte gli fu data una notizia falsa da ambienti dei servizi allo scopo di mettere in giro questo depistaggio e quindi fu in qualche modo lui stesso “usato”.

Di certo questo di Immordino non è l’unico comportamento anomalo tenuto nella vicenda. Nella sentenza della Corte di Assise di Palermo, nella quale la sua posizione è definita “non limpida”, si legge di un altro episodio riguardante l’incontro tra Piersanti Mattarella e il ministro Rognoni avvenuto nell’ottobre 1979. La signora Trizzino, suo capo di Gabinetto, dichiarò che, al ritorno da Roma, il presidente Mattarella le disse: "Le sto dicendo una cosa che non dirò né a mia moglie né a mio fratello. Questa mattina sono stato con il Ministro Rognoni ed ho avuto con lui un colloquio riservato su problemi siciliani. Se dovesse succedermi qualche cosa di molto grave per la mia persona, si ricordi questo incontro con il ministro Rognoni. Perché a questo incontro è da collegare quanto di grave mi potrà accadere.” Le dichiarazioni, gravissime e importanti, della signora Trizzino arrivarono solo nel 1981 ai magistrati e durante il processo si scoprì che la signora le aveva rese al dott. De Luca il quale le aveva comunicate al questore Immordino alla presenza di Impallomeni il 28 marzo 1980. Immordino ordinò di non svolgere nessun accertamento perché se ne sarebbe occupato lui. Invece non fece niente. Il questore andò in pensione a giugno, ma nemmeno il suo successore Nicolicchia né Impallomeni che lo aveva messo a conoscenza della cosa fecero niente.

La pista neofascista
Ma nelle dichiarazioni di Massimo Ciancimino ci sono dei punti di novità importanti rispetto a quanto finora noto. Il teste afferma che il padre gli disse di aver appreso che si trattò di “uno scambio di favori”.  

Proprio questa espressione “scambio di favori” sembra riportare alla ribalta la tesi del procuratore aggiunto Giovanni Falcone che fu titolare dell’inchiesta sui “delitti eccellenti” (Reina, Mattarella, La Torre – Di Salvo) e, insieme ai vari imputati mafiosi, ottenne il rinvio a giudizio di due terroristi neofascisti appartenenti ai NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari) quali esecutori materiali dell’omicidio Mattarella. I due terroristi neri erano Valerio “Giusva” Fioravanti e Gilberto Cavallini.

Questa fu l’ultima inchiesta di Giovanni Falcone prima del suo trasferimento al ministero. Le sue indagini portavano dritti all’eversione nera. Scrisse una corposa requisitoria di quasi 1700 pagine, depositata il 9 marzo 1991, accolta in toto dal giudice istruttore Natoli che dispose i rinvii a giudizio. Poi però Falcone lasciò Palermo e con essa il processo, che rimase nelle mani del procuratore Giuseppe Pignatone il quale mutò di fatto radicalmente linea, ritenendo non provata la pista nera e chiese e ottenne l’assoluzione di Fiovanti e Cavallini. Rimangono aperti molti interrogativi, tra cui chi furono gli esecutori materiali. In realtà le accuse a Fioravanti e Cavallini avevano un solido impianto accusatorio, come d’altronde c’è da aspettarsi conoscendo il modo di lavorare di Falcone, che può essere semmai accusato di eccessiva prudenza, ma non certo di lanciarsi in accuse che non ritenesse ben solidamente provate per reggere al vaglio del dibattimento. Di certo la pista neofascista non può essere bollata, come fa Bianconi nell’articolo del 1 febbraio sul Corriere della Sera, come un depistaggio dell’Alto Commissariato di cui fu vittima Falcone, dimostrando peraltro una dubbia conoscenza della carte processuali.

La pista neofascista dei NAR si aprì con le dichiarazioni resa al giudice istruttore di Roma nel 1982 dal fratello di Giusva Fioravanti, Cristiano. Anche lui appartenente ai NAR, si pentì e in una progressione accusatoria dovuta al legame affettivo accusò il fratello di essere l’autore dell’omicidio Mattarella. I riscontri a queste accuse furono numerosi e convergenti, confermati da altri dichiaranti appartenenti al mondo dell’eversione nera. Inoltre – dettaglio non da poco – Valerio Fioravanti fu riconosciuto da Irma Chiazzese, vedova di Mattarella, come il killer dagli occhi di ghiaccio che massacrò il marito.

L’omicidio fu subito rivendicato in sequenza dai Nuclei Fascisti Rivoluzionari, da Prima Linea e dalle Brigate Rosse. La prima rivendicazione, ascrivibile ai NAR e ritenuta credibile come forma e modalità, giunse appena un’ora dopo la morte di Mattarella. A Palermo poco prima dell’omicidio erano apparse scritte contro Mattarella firmate Terza Posizione.

Le indagini andarono avanti in modo molto faticoso anche a causa di vari ostacoli e depistaggi. Ma con le dichiarazioni di Cristiano Fioravanti ci fu la svolta nelle indagini.

Nelle prime dichiarazioni rese al G.I. di Roma, Cristiano Fioravanti disse di riconoscere il fratello e il suo camerata Gilberto Cavallini nella descrizione dei killer di Mattarella e che il padre vedendo alla tv l’identikit del killer aveva esclamato: ”Anche questo hanno fatto!”.  Via via le sue dichiarazioni divennero sempre più pesanti, furono rese davanti a molti magistrati tra cui anche lo stesso Giovanni Falcone. Riportiamo solo un paio di stralci di due interrogatori.

“D.R. In verità l'omicidio dell'on. MATTARELLA è una «brutta storia», e non so se altri, che pure hanno ammesso le loro responsabilità in vari omicidi, sarebbero disposti a dire tutto ciò che, eventualmente, sapessero. E ciò sia per problemi di sicurezza nelle carceri, sia per problemi di, «immagine» del gruppo di appartenenza. “(Cristiano Fioravanti al G.I. di Palermo 5.7.85)

“Io non riuscivo a capire quella insistenza nell’agire contro la moglie e la figlia del MANGIAMELI....... e allora Valerio mi disse che avevano ucciso un politico siciliano in cambio di favori promessi dal (rectius: al) MANGIAMELI e relativi sempre all’evasione del CONCUTELLI oltre ad appoggi di tipo logistico in Sicilia.
A proposito di CONCUTELLI, Valerio mi fece cenno al fatto che MANGIAMELI o chi per lui poteva attraverso un medico far sì che CONCUTELLI andasse in ospedale o in un altro carcere.
Mi disse Valerio che per decidere l'omicidio del politico siciliano vi era stata una riunione in casa MANGIAMELI e in casa vi erano anche la moglie e la figlia di MANGIAMELI, riunione cui aveva partecipato anche uno della Regione Sicilia che aveva dato le opportune indicazioni e cioè la «dritta» per commettere il fatto. Mi disse Valerio che al fatto di omicidio avevano partecipato lui e Cavallini e che Gabriele De Francisci aveva dato loro la casa.” (Cristiano Fioravanti al PM di Firenze 26.03.86, riportata nella sentenza del processo per la strage di Bologna)

Francesco “Ciccio” Mangiameli, palermitano, era dirigente di Terza Posizione. Fu ucciso dai NAR il 9 settembre 1980, appena un mese dopo la strage di Bologna. Le ragioni dell’omicidio rimangono torbide e probabilmente legate alle vicende relative alla strage del 2 agosto e i relativi depistaggi,  ma le motivazioni date da alcuni aderenti ai NAR tra cui lo stesso Cristiano Fioravanti furono che Mangiameli veniva accusato di aver rubato i soldi che avrebbero dovuto servire a finanziare l’evasione di Concutelli. Per questo Cristiano Fioravanti, davanti a questa motivazione (ufficiale) fornita dal fratello al gruppo, non capiva perché non bastasse uccidere il Mangiameli ma il fratello volesse scendere in Sicilia per ammazzare anche la moglie e addirittura la bambina.

Dunque i NAR stavano organizzando un tentativo di far evadere Pierluigi Concutelli, leader storico di Ordine Nuovo, condannato all’ergastolo nel 1978 per l’omicidio del giudice Occorsio. Una volta si pensò di farlo evadere dall’ospedale una volta che lui fosse riuscito a farsi ricoverare, ma questo tentativo fallì. Si pensò ad altro.

E qui entra in gioco lo scambio di favori di cui parlerà anche Massimo Ciancimino: l’omicidio di Piersanti Mattarella in cambio dell’appoggio logistico di Cosa Nostra per l’evasione di Concutelli dal carcere di Palermo dell’Ucciardone dove doveva essere trasferito per un’udienza che si teneva il 4 aprile 1980. Ovviamente il controllo del territorio a Palermo era di Cosa Nostra e nulla avrebbe potuto farsi senza il suo appoggio logistico. Secondo quanto riferì lo stesso Concutelli, il progetto era di farlo evadere durante il trasferimento dal carcere al Tribunale in via Gaetano Daita. E confermò che nel progetto erano coinvolti a livello operativo Fioravanti, Mambro e il gruppo dei NAR sia a livello logistico il suo caro amico Francesco Mangiameli. Il progetto fallì perché Mangiameli si rese irreperibile: “Secondo quanto mi ha detto Valerio Fioravanti questa è stata una causa se non quella principale della eliminazione del Mangiameli stesso.”
La presenza di Fioravanti a Palermo nel gennaio 1980 fu peraltro confermata da lui stesso, che disse di essere andato per incontrare Mangiameli e organizzare l’evasione di Concutelli.

Ecco quali erano le conclusioni di Falcone accolte dal Giudice Istruttore Natoli nell’ordinanza di rinvio a giudizio:
“Per le considerazioni già svolte, deve ritenersi provato che l’omicidio di Piersanti MATTARELLA fu materialmente eseguito da Valerio FIORAVANTI e Gilberto CAVALLINI. Dalle fonti di prova esaminate è risultato, altresì, che l'omicidio del Presidente della Regione Siciliana fu un omicidio "politico-mafioso", attuato in virtù di uno specifico "pactum sceleris" intervenuto fra i detti esponenti della destra eversiva e "Cosa Nostra". […] Più particolarmente, per quanto riguarda questo gravissimo episodio criminoso, la genesi logica della scelta, da parte di “Cosa Nostra", di due esponenti del terrorismo "nero" quali esecutori materiali deve essere individuata nella eccezionalità del crimine, le cui motivazioni trascendevano la ordinaria logica dell'organizzazione mafiosa e coinvolgevano interessi politici che dovevano restare assolutamente segreti, nonché nel momento storico che questa criminale associazione attraversava per dinamiche interne.” (p.897-898 dell’ordinanza-sentenza del G.I.)

Ma tutto questo non fu ritenuto sufficiente dal pm Pignatone che resse l’accusa in dibattimento, il quale escluse “ogni altra responsabilità o coinvolgimento di ambienti politici e poteri occulti” come scrisse Francesco Viviano su Repubblica. “La sentenza pronunciata ieri – continua Viviano – ha accolto integralmente la tesi del pubblico ministero Giuseppe Pignatone che nella sua requisitoria aveva chiesto la condanna dei sei boss della cupola. Una requisitoria che ha stravolto l'impianto accusatorio che fu delineato dal giudice Giovanni Falcone e dagli altri magistrati che firmarono la richiesta di rinvio a giudizio anche contro i "neri" Fioravanti e Cavallini.” E’ vero che i vari pentiti di Cosa Nostra negarono la partecipazione di elementi esterni all’omicidio Mattarella, avallando la sola pista mafiosa, ma a fronte di testimonianze a tratti contraddittorie che non permisero nemmeno di individuare gli esecutori materiali ancora oggi ignoti, abbiamo tutta la mole di prove raccolte da Falcone, a partire dal riconoscimento della vedova Mattarella, testimone oculare dell’omicidio. D’altra parte fu l’intero processo a riportare tutti gli omicidi politici al solo movente mafioso.
La sentenza di primo grado, pronunciata il 12 aprile 1995, fece scalpore. L’Unità titolò: “Omicidi politici: fu solo mafia”. La Stampa: “Delitti politici, solo i boss all'ergastolo La Corte esclude patti tra mafia, terrorismo nero e servizi”. Repubblica: “Delitti politici, fu solo Cosa Nostra”.
Bernardo Mattarella, figlio di Piersanti, commentò amareggiato: «A mia madre è stato preferito il pentito che dice di non aver mai sentito il nome di Fioravanti. Il mancato ricordo dei pentiti porta a scagionare l’imputato. È l’aberrazione del diritto».
Mentre l’avvocato Crescimanno, legale di parte civile della famiglia, dichiarò tra l’altro alla stampa: “La procura ha valorizzato più di quanto secondo me meriti le dichiarazioni dei collaboranti. C’è da tenere conto che i pentiti Mutolo e Marino Mannoia che vanno sul concreto indicando i sicari di Mattarella danno rispettivamente quattro e tre nomi. Di questi solo uno coincide. Allora chi ha ragione?”

Nel recente libro di Paolo Bolognesi, che lotta da anni per la verità sulle stragi come presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage del 2 agosto e del giornalista d’inchiesta Roberto Scardova, dal titolo “Italicus” (EIR, luglio 2014), c’è uno spunto interessante lanciato anche ai pm del processo sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo.

Gli autori ricostruiscono la vicenda relativa alle targhe usate per l’auto 127 rubata per eseguire l’omicidio Mattarella. Furono usati pezzi di due targhe, quella originale della 127 (PA 536623) e quelli di un’altra auto a cui furono rubati (PA 549016). Leggendo gli atti del processo per Mattarella effettivamente si legge che i pezzi mancanti delle due targhe non utilizzati per comporre la targa falsa non furono mai ritrovati. Ebbene, gli autori di “Italicus”, riferiscono che nel libro recente di Giovanni Grasso “Piersanti Mattarella, da solo contro la mafia” (San Paolo, Milano 2014) viene raccontato un episodio importante: “I pezzi rimanenti [delle targhe n.d.r.] furono rinvenuti il 20 ottobre 1982 durante la perquisizione di un covo torinese di via Monte Asolone, gestito dalla struttura clandestina del gruppo neofascista Terza Posizione, di cui facevano parte i Nar capitanati da Valerio Fioravanti.” Ricordiamo che Mangiameli era leader siciliano di Terza Posizione. Gli inquirenti ritennero che la presenza dei pezzi mancanti delle due targhe nel covo fosse “circostanza «compatibile» con le ipotesi sull’omicidio Mattarella, ma non decisiva.” Bolognesi e Scardova aggiungono che “nessuno pensò a fare un semplice accertamento tecnico verificando tra le linee di taglio” tra i pezzi trovati sulla 127 a Palermo e questi pezzi rinvenuti a Torino. Ma comunque sarebbe alquanto singolare che i pezzi trovati nel covo di Terza Poizione fossero per una combinazione decisamente improbabile proprio uguali a quelli mancanti a Palermo, ma provenienti da altre targhe. Né si spiegherebbe come dai killer mafiosi le targhe siano finite ai neofascisti. E’ chiaro che questa sarebbe stata la prova definitiva per dimostrare la colpevolezza di Fioravanti e Cavallini.

Ma queste informazioni non arrivarono mai ai giudici di Palermo che indagavano sull’omicidio Mattarella. Concludono Paolo Bolognesi e Roberto Scardova: “Le informazioni fornite ora dal libro di Grasso non confluirono mai né nel processo per l’omicidio Mattarella né in quello per l’eccidio del 2 agosto. Né, per quanto è dato sapere, sembra siano confluite nel processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia: in questo caso esse fornirebbero rilevanti conferme alle dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino, il quale ha riferito che il padre Vito, ex sindaco di Palermo, aveva appreso da un capitano dei servizi segreti che a uccidere Piersanti Mattarella erano stati non killer mafiosi bensì terroristi provenienti da Roma.”

Questo potrebbe effettivamente essere uno spunto d’indagine importante per il pool di Palermo che, partendo dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, sta di fatto riaprendo e in qualche caso riscrivendo la storia d’Italia.

Foto © Letizia Battaglia

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