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zucchetto-calogero-webdi Giulia Silvestri - 14 novembre 2014
Nel 32esimo anniversario dell’omicidio del poliziotto di Caltanissetta, ricordato stamane a Palermo in una commemorazione, proponiamo l’intervista esclusiva all’ex ispettore della Dia che lavorò con lui durante gli anni più duri per le forze dell’ordine nel capoluogo siciliano

Calogero Zucchetto nacque nel 1955 a Caltanisetta, morì 26 anni dopo a Palermo, ammazzato con cinque proiettili alla testa. Faceva parte della Squadra Mobile di Palermo e girava sul suo motorino alla ricerca di notizie per scovare i latitanti. Era il 14 novembre 1982. Questa mattina è stata deposta una corona di fiori in via Notarbartolo in ricordo di Zucchetto. “La citta’ di Palermo insieme a tutte le istituzioni civili e militari – ha detto il sindaco Leoluca Orlando prendendo parte alla commemorazione – si unisce nel ricordo di un poliziotto che ha pagato con la vita il suo impegno nella caccia ai latitanti di mafia. Oggi questa non puo’ che essere un’occasione per ribadire vicinanza a quegli agenti di tutte le Forze dell’ordine e a quei magistrati che sullo stesso piano sono impegnati per assicurare alla giustizia i latitanti”.
Forse è scontato, ma doveroso, dire che Calogero Zucchetto era un ragazzo che amava lottare per la qualità della vita di tutti, quella vita incancrenita dalle mafie e dalla corruzione dei valori; e lo faceva attraverso il suo lavoro. Giuseppe Giordano, ex ispettore della Dia, lo ha conosciuto proprio nella veste lavorativa, ai tempi della Squadra Mobile. Quando, per il Presidio Universitario di Bologna, gli ho chiesto di raccontarmelo, lo ha fatto così.

Chi era, per te, Calogero Zucchetto?

Se dicessi che Lillo era un collega e basta, direi la più grossa banalità di questo mondo. Lillo ha rappresentato per me il “ragazzo” siciliano al quale ho affidato la mia vita. E, ironia della sorte, lui morì a posto mio. E sì! La bieca furia assassina del gruppo di fuoco di Ciaculli riversò su Lillo la rabbia per aver arrestato il capo famigghia di Villabate, Salvatore Montalto. Addebitarono a Lillo una responsabilità che non aveva, ovvero aver profanato l’agro di Ciaculli, luogo dove si nascondeva il Montalto. Invero, a Ciaculli lo portai io sulla base di una “confidenza” che ricevetti da un uomo anziano che conoscevo sin da bambino. Il fatale errore nacque perchè Lillo insieme a Ninni Cassarà, fu intercettato alle Balate di Ciaculli mentre entrambi, col vespone di Ninni, stavano compiendo un sopralluogo. Per me Lillo era l’anima onesta e sincera della Squadra mobile palermitana. Il suo grande spirito di servizio, l’alto senso di attaccamento alla Divisa, fece nascere in noi un’amicizia vera. Per quei pochi mesi che abbiamo trascorso insieme, giunsi a considerare Lillo un galantuomo siciliano. Stimavo Lillo per la sua semplicità e per la bellezza dei suoi comportamenti, sempre improntati al rispetto. Lillo, volle confidarsi raccontandomi episodi opinabili commessi da colleghi e mentre li esternava, io coglievo la sua amarezza, il suo dolore. Ed è per questi motivi che amo ricordare Lillo come una delle persone oneste che ho conosciuto nel corso della mia vita.

Qual è il tuo ricordo più bello legato a Lillo?


È un episodio che accadde il giorno prima della sua uccisione. Nella mattinata, era un sabato, avevo incontrato il confidente che mi aveva dato la dritta su Montalto, dicendomi: “Se tu avessi scavalcato il muro di cinta della Favarella, avresti preso il Papa (Michele Greco), che al momento dell’arresto di Montalto si trovava lì”. Tuttavia, mi fornisce delle notizie precise come riuscire a catturarlo. Quindi, quel sabato al termine del servizio e mentre stiamo per salutarci innanzi alla Squadra mobile, dico a Lillo e a Ciccio (l’altro componente della mia pattuglia): “Lunedì anziché venire alle otto venite prima, che dobbiamo travagghiare pi pigghiari u Papa, ho avuto una bella notizia”. Lillo mi guarda e sfodera un bellissimo sorriso: mi abbraccia. Lo stesso fa Ciccio. Colsi in tutti e due la felicità degli innocenti bambini. Quella fu l’ultima volta che vidi Lillo: gaio e sorridente. Dopo la morte di Lillo, iniziai il servizio per la cattura di Michele Greco, così come avevo annunciato a Lillo. Lo intercettammo, non era solo ma in compagnia di Pino Greco “scarpuzzedda” e di altre tre persone. Tra noi e loro c’era un alto cancello chiuso, riuscirono a fuggire. Noi potevamo fermarli con una raffica di mitra, ma io non diedi l’ordine di sparare.

Ogni incontro ci cambia la vita. Com’è cambiata la tua quando lo hai conosciuto e dopo la sua morte?

Dal 14 novembre 1982 mi assilla una domanda, alla quale io stesso do la risposta. Se io non avessi raccolto la confidenza su Montalto e se quella mattina Lillo non fosse entrato nello schedario, sarebbe ancora in vita, Ne sono certo. La mia vita cambiò, nel momento in cui Lillo mi disse “u canusciu bono il Montalto”. La confidenza della fonte informativa mi fece cambiare sezione, dalle “rapine” alla “investigativa” di Cassarà. Dopo la morte di Lillo, io non fui più lo stesso. Cambiai umore, diventai più taciturno del solito e soprattutto divenni diffidenti di tutto e di tutti. Quel giovane corpo martoriato disteso su una lastra di marmo, cambiò per sempre il mio carattere. Poi, vedere la mia città Palermo, assente ai suoi funerali, mi fece comprendere ancor di più che il martirio di Lillo era considerato una fatto di “sbirrri”. Mi buttai a capofitto sulle indagini e un giorno svelerò una verità, ancora non scritta. Spesso, faccio fatica ad addormentarmi, dopo Lillo toccò a Beppe Montana, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia e Natale Mondo. Due persone mi salvarono la vita. Lillo che morì a posto mio e Cassarà che m’impedì, quando già avevo lasciato Palermo, di partecipare ai funerali di Beppe Montana. Seppi dopo la morte di Cassarà che mi “aspettavano”, ma Ninni non mi disse nulla.

Che importanza ha avuto il tuo lavoro, all’interno della Squadra Mobile, per noi oggi?

Ci tengo a dire che io non feci nulla di diverso da tutti gli altri miei colleghi palermitani. Certo potevo distillare i miei comportamenti e dare retta a chi mi diceva “ma cu tu fa fari”. E invece preferii lavorare non lesinando tempo alle investigazioni contro Cosa nostra. Oggi mi rendo conto che feci pagare alla mia famiglia, un prezzo altissimo, soprattutto per la forzata partenza da Palermo e per essere stato per molto tempo assente. Contrabbandai il lor affetto con l’amore verso il mio lavoro e la dedizione alla Polizia di Stato. Eppure, se tornassi indietro farei esattamente quello che ho fatto. È difficile spiegare le emozioni, la fratellanza, l’amicizia che accomunava la Squadra mobile degli anni ’80. Nessuno di noi si chiese se dopo gli omicidi di colleghi e carabinieri, era il caso di desistere. No! Sembra un paradosso ma a ogni vittima ci sentivamo più forti e determinati a proseguire la lotta. Penso che il mio modesto lavoro svolto a Palermo con la Squadra mobile prima, e con la DIA dopo, sia la testimonianza di un impegno profuso per garantire a questo Paese una dignità vera e non di facciata. Noi poliziotti., carabinieri e magistrati, abbiamo pagato un alto tributo di sangue per consentire agli italiani di vivere in uno Stato senza condizionamenti mafiosi. Purtroppo non ci siamo riusciti e nemmeno il martirio di Lillo Zucchetto, ragazzo di soli 26 anni, contribuì a far cambiare le sorti della lotta mafiosa. Ci sono voluti le stragi del 92/93 per accendere i riflettori sulle mafie e sui politici corrotti. Mi permetto di ringraziare pubblicamente Pif , per i suoi continui ricordi di Lillo Zucchetto. A voi prossimi laureandi in giurisprudenza, auguro di raggiungere i sogni della vostra vita. Permettetemi di suggerirvi che se scegliete la carriera di magistrati o l’attività forense, onorate la vostra professione, siate onesti e leali nel far applicare la legge: non percorrete scorciatoie, i martiri della violenza mafiosa, compreso Lillo Zucchetto, non lo meritano.

Tratto da: loraquotidiano.it

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