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ianni-carmelo-webdi Gilda Sciortino - 28 agosto 2014
Una famiglia serena, a osare si potrebbe dire anche felice, quella degli Iannì, composta dal padre Carmelo, la madre Giovanna, le figlie Liliana, Roberta e Monica (18, 16 e 11 anni). Tutto scorreva tranquillamente, in quella lontana estate del 1980, come in una qualunque famiglia, dove le ragazze vanno a scuola, la madre si occupa della casa e dei suoi cari e il padre lavora per consentire a tutti di realizzare i propri sogni e desideri.

L’unica particolarità era che Carmelo Iannì non faceva un normale lavoro d’ufficio, ma gestiva il “Riva Smeralda”, un albergo sul mare a Villagrazia di Carini. Un’attività che lo rendeva felice, anche perché era quello che sapeva fare molto bene. Oltre della sua famiglia, infatti, lui amava curarsi della gente e accoglierla con tutti gli onori nella sua struttura alberghiera, rendendo il loro soggiorno il più splendido possibile. Un grande intrattenitore e organizzava per i suoi ospiti diversi spettacoli parecchio apprezzati e seguiti. Era anche una persona che credeva e rispettava la legge, Carmelo, tanto che non si pose alcun problema quando la polizia un giorno gli chiese di fare infiltrare nella sua struttura degli agenti, al fine di smascherare alcuni marsigliesi venuti in Sicilia per insegnare ai nostri come si raffinava l’eroina. Detto fatto. Tra il personale dell’albergo vennero inseriti alcuni poliziotti facenti funzione di camerieri e portieri d’albergo. Non ci volle molto. Venti giorni e i marsigliesi furono arrestati, compreso l’importante latitante Gerlando Alberti, noto negli ambienti come “u paccarrè”, decretando il successo di un’operazione che aveva fatto tanto tribolare. Unico problema il fatto che a effettuare gli arresti furono anche gli infiltrati, subito riconosciuti non solo da Alberti ma anche dal resto dell’organizzazione. Nei confronti di Iannì venne, quindi, subito emessa una vera e propria sentenza di morte. Così, il 28 agosto del 1980, due giovani a volto scoperto entrarono nella hall del “Riva Smeralda” e lo uccisero sotto gli occhi della moglie e di alcuni ospiti dell’albergo. La figlia più piccola, Monica, però, sentì gli spari. «Da qualche tempo avvertivamo che una nuvola nera era passata sulla testa di mio padre – racconta Liliana -. Infatti, era sempre molto serio e, stranamente, non gli andava di sorridere. Erano passati pochi giorni dall’arresto. Noi, però, non sapevamo niente perché ci aveva tenuto all’oscuro di tutto. Quel giorno, io e mia sorella dovevano andare a studiare dal professore perché io ero stata rimandata e mi dovevo preparare per gli esami di riparazione. Avevamo pranzato e aspettavano mio padre che si era assopito dentro il Transit che usavamo per portare le persone in aeroporto. La cosa strana di tutto quello che è successo, è che per me non c’è un prima e un dopo l’omicidio; l’unica ultima immagine di mio padre è proprio quella di lui assopito in quel modo e in quel momento. Finita la lezione, fatta insieme a una mia amica, pure lei rimandata, andammo al suo villino che si trovava alle falde della montagna, dalla cui terrazza di vedeva tutto il golfo, quindi anche l’albergo. Ci dovevano venire a prendere, ma non si vedeva nessuno. Io ero preoccupatissima, sentivo che era successo qualcosa, ma credevo un incendio, tant’è che mi aspettavo di vedere il fumo e le fiamme levarsi alte nel cielo. Tensione accresciuta da un elicottero che girava in continuazione, sicuramente per cercare i due sicari. Finalmente, nel tardo pomeriggio, vennero a prelevarci alcune persone che lavoravano in albergo, con delle facce serissime e la bocca cucita. Scoprimmo tutto a casa quando, dopo averci detto che era in ospedale perché aveva avuto un incidente, mia madre ci rivelò che era morto. Non saprei, però, dire se ci disse mai come era successo. Basta pensare che solo da dieci anni a questa parte ho cominciato a volere andare più a fondo».
La più grande operazione antidroga e la scoperta delle raffinerie di eroina, quindi, passò proprio dalla scelta di Carmelo Iannì di aiutare le forze dell’ordine. Questo, nonostante gli Ottanta fossero anni veramente bui per la Sicilia.
Erano, infatti, tempi in cui si diceva che la mafia non esisteva; chi veniva ucciso spesso era considerato affiliato, vicino o connivente con la mafia, o addirittura che se l’era cercata perché questione di “fimmine”. Si liquidava in questo modo ogni possibile tentativo di andare oltre, di capire. La mafia, poi, era qualcosa che riguardava sempre gli altri, così si eliminava ogni tipo di responsabilità.
Di Iannì, in un primo tempo, si disse pure che fosse organico a cosa nostra. «Soltanto dopo un po’ di giorni scrissero la verità con dei piccoli articoli – raccontava tempo fa in un’intervista Roberta – ma, essendo notizia già vecchia, su pagine in fondo al giornale. Trasmissioni televisive come “Maurizio Costanzo Show” e diversi libri sull’antimafia, invece, parlarono di lui associandolo spesso all’omicidio del giudice Gaetano Costa, accaduto pochi giorni prima, costituendo questo per noi tutte l’unica magra consolazione». Magra consolazione veramente, visto che da quel 28 agosto 1980, la vita delle donne di casa Iannì cambiò drasticamente.
«Per un anno tentammo di gestire l’albergo – prosegue Liliana – ma alla fine ci rendemmo conto di non potercela fare. Così mollammo, rimanendo però con molti debiti. Avendo, prima di sposarsi, fatto la camiciaia, mia madre cominciò a lavorare come sarta. Del resto, era mio padre l’imprenditore. Al “Riva Smeralda” aveva realizzato la discoteca, andava in giro nelle città per proporre il luogo; la sua era una reale vocazione turistica. L’albergo lui lo prese nel ’77, ma per le due stagioni precedenti gestì con successo la terrazza del Saracen di Capaci. Lui era sempre quello che metteva su gli spettacoli, come quello intitolato “La Donna Ideale” , dove venni premiata come Miss Simpatia. Inevitabile che tutti pensassero che mi avevano scelto perché era la figlia dell’organizzatore. Ricordo sempre piacevolmente quando, in inverno, lavoravamo con i gruppi che venivano dalla Germania e dall’America. Diventavamo tutti un’unica famiglia, mangiando anche insieme e stando sempre in reciproca compagnia. Stavano così bene che, quando tornavano a casa loro, ci mandavano sempre tante cartoline. Mia sorella Roberta è quella che ha ereditato la voglia e capacità di mio padre di stare a contatto con le persone. Lavora all’assessorato regionale al Turismo e si arrabbia molto quando vede che le nostre ricchezze vengono sfruttate male o per niente. Mio padre, però, ha trasmesso a tutte noi il senso del rispetto delle regole. Qualunque cosa accada, scegliamo sempre percorsi legali».
Solo dopo molto tempo, in epoca recente, le giovani Iannì cominciano a raccontare la loro storia, piena di dolore e sofferenza, di umiliazioni e solitudine. Anche perché, in gran parte abbandonate da quello stesso Stato nel quale Carmelo aveva creduto, anche se non aveva certo messo in conto di dovergli sacrificare la sua vita e il futuro della sua famiglia.
E’, per esempio, grazie a un progetto come quello del “Se Vuoi”, promosso e portato avanti da alcuni agenti della Squadra Mobile di Palermo, che Liliana ripercorre quanto accaduto loro insieme agli studenti, ragazzi di una generazione che per motivi anagrafici non ha vissuto i tragici eventi di quegli anni, non potendo mai trattenere quell’emozione che sempre la stessa le fa rivivere come se fosse ogni volta quel tragico 28 agosto. E racconta chi era suo padre, cosa era la loro vita e ciò che stravolse un mondo fatto di cose semplici, genuine, sincere.
«A distanza di anni mi sono chiesta: “Ma lo Stato, dov’é?”. Mi ha dato lavoro solo nel ’90, ma perché qualcuno al di fuori degli addetti ai lavori chiese a mia madre come mai non avesse presentato istanza per essere riconosciute vittime di mafia. Diversamente, cosa sarebbe successo? Finito quel momento di convulsione, dovuto alle normali indagini del momento, nessuno mai è venuto a chiederci come stavamo e quali erano le nostre condizioni. Tanto per fare un altro esempio, abbiamo fatto più volte richiesta per la medaglia d’oro che il Presidente della Repubblica dà anche ai civili per avere sacrificato la propria vita allo Stato. Mai avuta risposta di alcun genere, a dimostrazione che Carmelo Iannì per loro non conta nulla. Pensavo anche che per il 30° anniversario del suo omicidio qualcuno si sarebbe ricordato facendosi avanti. Le uniche a starci vicino sono state le persone comuni. Tutto questo mi dimostra che ci sono sempre vittime di serie A e vittime di serie B. Io, per esempio, mi sento di essere passata alla categoria C».
Ricordare Carmelo Iannì da parte dello Stato sarebbe certamente doveroso, anche perché lui muore per una certa leggerezza nel condurre l’operazione, non certo per la sua intemperanza o per un desiderio di eroismo. La sua è la storia di un uomo che si é messo fiducioso nelle mani di chi lo avrebbe dovuto proteggere. Rendere onore alla sua memoria, magari assegnandogli finalmente il riconoscimento richiesto dalle figlie, sarebbe una sorta di risarcimento spirituale per la famiglia, per quelle persone che lo hanno conosciuto, per i suoi stessi nipoti che non avranno mai la fortuna di viverselo.
Servirebbe a dare anche una risposta a tutte quelle persone che, come al solito, puntano il dito contro i familiari perché è stato dato loro un posto di lavoro, non pensando che per quella sposa, per quelle figlie e per gli amici, ogni festività si trascorre guardando quel posto vuoto al tavolo, al quale Carmelo non ha mai più potuto sedere.
«Se c’è questa possibilità, per noi figli di vittime, è forse perché lo Stato in qualcosa è mancato e ha cercato di sopperire attraverso gli strumenti che aveva a disposizione. Per alcuni, invece, il nostro va considerato come una sorta di privilegio. A queste persone vorrei dire che, quando mi sono sposata, non c’è stato mio padre ad accompagnarmi all’altare, così come non l’ho avuto accanto in diversi altri importanti momenti della mia vita. Mi rammarica, infatti, non avere potuto condividere con lui la mia crescita, la mia maturità, il figlio maschio che ho avuto e che lo avrebbe fatto impazzire».
Si può solo lontanamente immaginare cosa ha significato per Liliana, Roberta, Monica e Giovanna avere avuto strappato in maniera così brutale un uomo che riusciva a dare loro tanto. Un uomo che oggi sarebbe sicuramente orgoglioso nel vedere le sue figlie prendere in mano la loro vita e condividerla con chi, attraverso l’esercizio della memoria, può riuscire a capire il perché di quanto accaduto nel recente passato di questa nostra terra.
Grazie a loro, Carmelo Iannì è oggi più che mai vivo e ci ricorda che la lealtà, l’integrità morale e la fiducia nel prossimo stanno sopra ogni cosa. Lui ha sacrificato la sua vita per tutto questo, ma anche per dare alle sue figlie un futuro pulito, un futuro di speranza nel quale anche un singolo cittadino può fare la differenza. Carmelo Iannì ci ricorda in maniera vivida e lucida che tutti noi possiamo e dobbiamo fare la differenza.

Tratto da: ilquotidianodipalermo.wordpress.com

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