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caserma-lungaro-c-giancarlo-finessidi Josephine Nicolaci - 17 agosto 2014
Diciotto luglio duemilaequattordici, ventidue anni meno un giorno da quella data tragica incisa nella memoria collettiva, la strage di via D’Amelio - 19 luglio 1992 - e per la prima volta è accaduto.

E’ accaduto che la caserma Lungaro, a Palermo, riservata esclusivamente agli agenti di scorta, in una tarda mattinata assolata di un sentimento di contingenza tragica della vita, permettesse l’incontro con la società civile, rappresentata da qualche decina di persone sensibili, consapevoli, partecipi a un ingiusto dolore.

Ma quel che davvero si è compiuto è stata la perfetta fusione di sentimenti evocati da noi, che di altro ci occupiamo nella vita, evocati da loro, quotidianamente immersi in un pericoloso lavoro, evocati dai famigliari delle vittime, evocati da chi è assente, in forma assoluta e assolutamente innocente, assente per coraggio, per impegno, per scelta. Un rito in loro onore, testimone di una ferita non rimarginata, inevasa nei suoi molti perché, che affondano in trame che paiono inestricabili sotto la protervia di un potere finanziario-politico insano, malato, mortale e privo di fede umana, che vorrebbe affossarle per non restituirle al giudizio della giustizia, che seppur sempre mafiosamente minacciata emana testimonianze valorose della sua presenza.

Si ricordano gli uomini coraggiosi, di cui spesso nessuno sa il nome e il cognome, o ne conosce il volto fino a quando non cade vittima. Uomini silenziosi ma generosi, e il cui lavoro consiste nel salvaguardare, con la propria, la vita altrui. Sono gli uomini persi nelle stragi del 1992, di Capaci, di via D’Amelio, le scorte dei giudici Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, falcidiati con loro, espressione fisica di un’unica anima, e chiamati insieme a loro, uno per uno con un senso di dolorosa assenza, a cui segue il silenzio di un pensiero: Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.

Noi, loro. Noi che ci occupiamo di altro nella vita, loro che sono sempre a rischio. Per la lotta contro le mafie, per la difesa della legalità. Noi che siamo noi, loro che non ci sono più. E quegli altri loro. Quelli che svolgono un lavoro simile a quello di loro che non ci sono più, che fanno le scorte e gli agenti di una polizia in una terra in cui sono facilmente individuabili i fronti contrapposti. Loro che appartenevano a noi, che abbiamo amato come figli, fratelli, sorelle, amici, padri. Noi che siamo senza di loro, che siamo loro, loro che sono noi.

caserma-lungaro-2-c-giancarlo-finessiAttimi di piena comprensione, di risonanze della mente e dal cuore, risonanze che attraversano tutti i presenti, in un avvolto silenzio.

Sono nostri ognuno di loro, sono miei. E’ mio ogni nome ricordato, è mio ogni sogno da loro sognato e ogni istante a loro rubato, senza pietà rubato. Nessun urlo, ma un’unica commozione. Per ogni nome un silenzio e un applauso. Un silenzio nel cuore, l’emozione di un affetto, il vuoto sentito e il prorompere spontaneo di un finale abbraccio. Vi stringo forte. Non voglio più perdervi, siete miei fratelli e non voglio più perdervi.

Davanti alla lapide e ai nostri fiori, ogni nome inciso ci ricorda che la salvezza è possibile se esiste chi, in nome di un senso dignitoso della vita, quella vita è stato ed è disposto a perderla, certo del dovere di difenderne la bellezza che non è mai conciliabile con ciò che la oltraggia.

Parole brevi, vere, importanti quelle pronunciate, la realtà non richiede contorsioni false e retoriche. La realtà sono i famigliari delle vittime, sono Luigi Lombardo, Salvatore Como, segretario Siap, il sindacato di polizia, Salvatore Borsellino, e siamo noi, società civile. E’ assente l’enfasi, è assente l’ipocrisia, sono assenti i rappresentanti di istituzioni assenti.

Esiste un senso da raccogliere, viene detto. Si tramanda dall’uno all’altro con affetto. Il nostro presente non è un destino. La speranza muove le nostre azioni. Ci apparteniamo reciprocamente, ognuno di noi investito in un ruolo che incide sull’esistenza dell’altro, inevitabilmente, ma questa inevitabilità può trasformarsi in un’occasione unica. Quella di un vivere pienamente umano nella dignità, rispettosa e gioiosa di ciò che non è un nostro esclusivo possesso, ma di cui siamo responsabili nel nostro prendercene cura. La vita dei nostri giovani, la vita dei nostri figli, il nostro stesso amore per loro, per noi. Ci accomuna l’esperienza che qualcosa persiste sempre nella sua validità ideale. La giustizia, la trasparenza, la legalità, il benessere collettivo.

La Sicilia è una terra bellissima e contraddittoria, non facile, mai.

Palermo, quanti ammazzati dalla mafia e da una politica corrotta, quante stragi. Alcuni giovani e alcuni ragazzini le videro, ne furono segnati, scossi. Turbati. Ma non rassegnati. Sperarono.

Sperarono per esempio che avrebbero contribuito a rendere migliore la loro terra, liberandola dalla violenza del sopruso e del sangue. Decisero di farlo come agenti di scorta.

E sono passati 22 anni. Già sono passati. La verità non invecchia col tempo. Non si estingue. E’ lì e ancora esige di essere detta. E sempre ci sarà qualcuno che la perseguirà e la racconterà. Con il coraggio dell’onestà e della legge.

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