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borsellino-scorta-1992-webdi Enza Galluccio - 2 giugno 2014
“[…] Noi avemmo un breve dialogo non verbalizzato pochi giorni prima dell'attentato. Io alle riunioni non sentii mai l'idea di un attentato a Borsellino e glielo dissi allo stesso giudice. Eppure lui aveva il volto tirato, temeva di morire di lì a poco. La sera prima di morire, mi disse che non ci saremmo più visti. Sapeva di dover morire […]”

Sono queste le parole di Leonardo Messina che nella deposizione del 28 maggio al Processo Borsellino quater, racconta di quell’ultimo colloquio avvenuto qualche giorno prima del 19 luglio del ’92, in cui Paolo Borsellino morì in via D’Amelio con Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Se si pensa a quel tragico epilogo esse fanno ancor più rabbrividire. Ancora una volta si fa cenno alla consapevolezza di dover morire, quasi con la certezza di una data precisa resa esplicita da quel “non ci rivedremo più”.

Anche dopo l’incontro con Mancino (sempre negato), probabilmente avvenuto nelle stanze del Viminale il primo luglio dello stesso anno, Borsellino aveva detto alla moglie Agnese “oggi ho sentito odore di morte”. Ma quel giorno il neo ministro dell’Interno non era stato l’unico ad averlo incontrato. Il pentito Mutolo, che si trovava negli uffici della Dia ed affrontava un interrogatorio proprio con il magistrato, aveva dichiarato che dopo una telefonata Borsellino si era dovuto allontanare per recarsi dal Ministro appena insediato. Quando era ritornato sembrava molto agitato e stava per accendere due sigarette contemporaneamente; aveva poi raccontato di aver incontrato Bruno Contrada nell’anticamera del Ministro e che questi gli aveva detto qualcosa proprio in merito a quell’interrogatorio in corso. Il turbamento era dovuto al fatto che sia il colloquio avvenuto con Mutolo poco prima, sia il suo pentimento erano ancora segreti. Come faceva quindi Contrada ad esserne a conoscenza? Quale messaggio si celava in quell’accenno quasi ironico? Un primo avvertimento di morte per Borsellino?
Nella deposizione del pentito, ci sono riferimenti precisi alle relazioni tra i servizi segreti e Cosa nostra. Anch’egli, a tal proposito, fa il nome di Contrada e aggiunge quello di Ignazio D’Antona, allora dirigente della squadra mobile di Palermo. Ma non solo, c’è spazio anche per vigili urbani, onorevoli, pretori e chi più ne ha più ne metta. Tutti d’accordo e tutti vicini ai peggiori criminali.
Sempre nelle sue dichiarazioni, Messina parla anche dell’ormai famosa riunione di Enna avvenuta alla fine del ’91. Lì furono decise le prime azioni intimidatorie nei confronti dello Stato e di quei politici che non si mostravano più adeguatamente attenti al rapporto storico con i boss e furono citati contatti anche con altre forze politiche come la Lega di Umberto Bossi, paragonato ad un “pupo” mentre la mente era Miglio, a sua volta descritto “nelle mani di Andreotti”. Il Collaboratore di giustizia definisce inoltre “usuali” i legami tra Cosa nostra e certe entità come la massoneria.
Quando poi racconta della riunione in cui si decise la morte di Falcone - alla quale non partecipò personalmente ma di cui ebbe notizia e informazioni - egli precisa che nonostante ci fossero due correnti, una più cauta e l’altra apertamente stragista, nessuno si oppose.
Fu quello il momento in cui si ufficializzò l’utilizzo della sigla Falange Armata. Messina parla di quella scelta come derivante dalla decisione di una “commissione nazionale” di cui facevano parte anche i capi delle altre principali associazioni criminali come la ‘Ndrangheta e la Camorra. In quella commissione venivano deliberate le decisioni più importanti, quelle che avrebbero avuto ripercussioni su tutti. È logico pensare che, essendo C.N. per sua stessa ammissione in contatto con servizi segreti, politici e massoneria, anche la strana scelta di utilizzare una sigla di rivendicazione facente riferimento ad altre forze come ad esempio l’estrema destra, possa essere stata frutto di un’indicazione non propriamente mafiosa.
Ma per avere un’ulteriore chiave di lettura, anche in merito al fatto che molti avvenimenti di quell’anno erano stati preannunciati, bisogna ricordare ciò che ha preceduto il cambio della guardia al Viminale tra il nominato Mancino e il suo predecessore Vincenzo Scotti.
Quest’ultimo, infatti, ha deposto il 29 maggio scorso al Processo di Palermo sulla trattativa e in quella circostanza ha ribadito come già durante l’audizione del 20 marzo ‘92 alla Commissione Affari Costituzionali e Interni della Camera dei Deputati, egli avesse dichiarato che il Paese era di fronte ad un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata e che non si sarebbe preso la responsabilità di nascondere tale emergenza ai cittadini. Aveva poi aggiunto una frase sibillina che racchiude in sé non solo tutta la sequenza di silenzi e verità negate fino ad oggi, ma anche la scelta di azioni in seguito collegate alla presunta ragion di Stato secondo una malsana tesi giustificazionista: “[…] io non intendo gestire il ministero degli Interni con una condizione di silenzio o di misteri e senza mettere su carta le cose che si fanno”.
Il do ut des che probabilmente ha seguito nel tempo quelle affermazioni era incompatibile con quell’ex ministro, che in aula appare ancora oggi addolorato nel confrontarsi con la propria memoria e con le reazioni di Andreotti, che si permise di definire “patacche” le sue affermazioni certamente allarmistiche. Nonostante la storia abbia dimostrato quanto egli avesse previsto bene, non ricordo un solo momento in cui il fu Presidente del Consiglio avesse ammesso quel madornale errore di valutazione insito nello sminuire l’imminente accadere di quei drammatici eventi. È lecito pensare che per Giulio Andreotti non fosse affatto un errore, ma consapevolezza mirata.
Ciò che avvenne dopo fu per alcuni occasione di ricatto allo Stato, per altri ebbe il merito (nonché la necessità) di distrarre gli italiani dallo scandalo tangentopoli appena scaturito dall’inchiesta Mani pulite.
La nuova strategia della tensione era quindi pronta e serviva a molti; nessuno si poteva permettere di ostacolarla.

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