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francese-mario-bigdi Salvo Palazzolo
Chissà perché mai nessun giornalista siciliano ha provato a scrivere un libro sulla storia di Mario Francese. L’ unico punto di riferimento per conoscere in maniera approfondita il cronista di giudiziaria del “Giornale di Sicilia” assassinato da Cosa nostra il 26 gennaio 1979 resta il volume promosso dall’ Ordine dei giornalisti di Sicilia e pubblicato da Gelka nel 2000, “Mario Francese, una vita in cronaca”. Ma è come se quel libro fosse scritto dallo stesso Mario Francese, perché è una raccolta preziosa dei suoi articoli, introdotti dalle riflessioni di giornalisti, storici e magistrati.

Rimane la domanda: perché nessun giornalista siciliano ha mai raccontato in un libro-inchiesta la vicenda umana e professionale di Mario Francese? Adesso che un libro su di lui è stato pubblicato (”Il quarto comandamento” – Rizzoli), e per di più da una giornalista non siciliana (Francesca Barra, conduttrice del programma di Radio 1 Rai “La bellezza contro le mafie”) la questione è aperta. Perché per tanti anni la vita e la morte di Francese non hanno fatto notizia? È la stessa domanda che si poneva Luciano Mirone, nel suo libro dedicato ai giornalisti siciliani uccisi dalla mafia, dal significativo titolo “Gli insabbiati” (Castelvecchi editore, 1999). È la domanda che ha schiacciato uno dei figli di Francese, Giuseppe: dopo aver cercato a lungo di ottenere giustizia, si è tolto la vita, il 3 settembre 2002. Processi e sentenze avevano individuato il sicario e i mandanti dell’ assassinio di suo padre, ma Giuseppe riteneva che non fosse stata raggiunta tutta la verità.

Nel racconto di Francesca Barra, il cronista e suo figlio sono insieme già dal sottotitolo: “La vera storia di Mario Francese che sfidò la mafia e del figlio Giuseppe che gli rese giustizia”. Perché i processi che sono stati celebrati hanno avuto un merito, quello di aver tirato fuori dai ricordi confusi di una città alcuni punti fermi: le inchieste di Francese raccontavano già cosa sarebbe diventato il potere dei nuovi mafiosi. I processi hanno spazzato via soprattutto il tam tam che per troppi anni ha continuato a girare fra le redazioni e i salotti buoni: «Se l’ è cercata. Il posto preferito di Francese era accanto al pubblico ministero, quasi a voler fare da suggeritore dell’ accusa. Era un’ inutile sfida la sua». La conclusione della cantilena, che troppo spesso veniva affidata dai più anziani ai giovani cronisti, faceva pressappoco così: «Chissà chi l’ ha ammazzato, ma a questo punto può essere stato chiunque». Oggi, non si può più dire questo di Mario Francese. Eppure, la sua storia è ancora poco raccontata.

Chi ha vissuto i giorni del processo potrebbe testimoniare che durante quelle udienzei giornalisti di Palermo hanno vissuto un dramma lacerante. Perché è rimasta l’ ombra di uno o più traditori alle spalle di Francese. Nel settembre 1978, Cosa nostra aveva deciso una vera e propria strategia d’ attacco contro l’ informazione ficcanaso. Prima, colpendo l’ auto del direttore del “Giornale di Sicilia” Lino Rizzi. Poi un mese dopo, la casa di Casteldaccia del capocronista Lucio Galluzzo. Hanno detto i pentiti che Riina voleva fermare a tutti i costi una linea editoriale. Ma a settembre Francese non è al giornale, sta in convalescenza. E ci resterà sinoa fine anno. Eppure, l’ escalation prosegue, come sei mafiosi sapessero che Francese non se ne sta con le mani in mano. Anzi, affina lo scoop della sua vita, un grande dossier sulla mafia, che ha consegnato a maggio. Di tanto in tanto, il cronista va in redazione, chiede che fine abbia fatto il suo lavoro, perché non sia stato ancora pubblicato. All’ inizio del gennaio ‘ 79, al ritorno in servizio, Francese ha il sospetto che il dossier sia filtrato all’ esterno. Qualcuno ha tradito Mario Francese? È la domanda che si poneva suo figlio Giuseppe.

È una storia scomoda, questa. Ma è pur sempre una storia di 32 anni fa e molti giornalisti di oggi non hanno neanche vissuto quella complicata stagione. Deve esserci dunque qualche altra ragione perché la storia di Francese non abbia fatto notizia per così tanto tempo. Un indizio lo offre il libro di Francesca Barra quando descrive la vita normale di quel cronista che era arrivato a Palermo da Siracusa. Non si atteggiava a eroe dell’ antimafia: cercava solo storie, personaggi, fatti. E non li trovava di certo nelle veline di qualche ufficio stampa. Forse, visto dall’ era di Internet, il giornalismo di Francese sarà sembrato arcaico a qualcuno. Forse, la generazione dei quarantenni in cronaca non si è mai davvero fermata a riflettere sull’ eredità che è stata chiamata a raccogliere: prima, assillata dalla palude del precariato, poi stretta negli ingranaggi veloci dell’ informazione cosiddetta moderna, che tutto mastica e di niente sembra aver memoria. Forse, i riti dell’ antimafia hanno ormai fatto passare in secondo piano persino le vittime e la ragione della loro morte.

Questo non è un atto d’ accusa. Solo, un ragionevole ventaglio di ipotesi per una possibile autocritica da parte della generazione dei giovani cronisti siciliani.
(16 giugno 2011)

Tratto da: ipezzimancanti.it

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