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roccuzzo-antoniodi Antonio Roccuzzo - 7 gennaio 2014
Il ricordo dell’autore del docufilm sul giornalista ucciso
Delresto, ieri era il giorno dell’Epifania, il giorno dei Re Magi, il giorno in cui, 34 anni fa a Palermo, uccisero Piersanti Mattarella. Una storia collettiva scandita da morti e non solo o tanto da annunciazioni di rinascite civili.
Io, da ex giovane giornalista di quel mensile chiamato, I Siciliani e in edicola all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, ho scritto quella lontana vicenda prima in un libro che ho dedicato ai ragazzi in cerca di parole libere negli anni Dieci di questo secolo: l’ho fatto perché a un certo punto, uno deve raccontare — ammesso che ne valga la pena — queste storie e se, come accade ora a me, hai tre figli adolescenti, sai che hai qualcuno al quale rivolgerti: Ilaria, Maximilian e Federico (i miei figli) avranno questo documento da usare. E, come loro, tanti ragazzi con altri nomi. Spero.

Avevo scritto quel libro di getto (e l’avevo subito cestinato) venti anni fa, quando avevo 35 anni; l’avevo scritto, pigiando sui tasti di un vecchio Toshiba portatile prima generazione, roba da floppy disk, in fretta quando ero troppo preso da me e quando non avevo figli. Cioè nessuno a cui raccontare quelle cronache. E solo grazie a mia moglie Constanze e alla sua infinita pazienza (quanta pazienza devono avere le donne che incontrano un cronista siciliano dello scorso secolo!) devo il fatto che questa memoria è stata riesumata dal cassetto proto-telematico, riscritta ed è poi diventata prima un libro e ora un film per la tv.
La domanda, non retorica e fuori dai miti, è sempre quella: «a che serve vivere, se non si ha il coraggio di lottare?». Una buona domanda, teatrale, una frase di Giuseppe Fava, buona ancora oggi. Da lì ricomincia tutto, 30 anni dopo la morte di Fava. E sta tutta lì la risposta a questo bisogno di raccontarsi rivolgendosi ai ragazzi di questo tempo.
Ora, uno può chiedere: perché riparlare — anniversari a parte — di quei “ragazzi di Pippo Fava” additando la loro storia a modello per i ragazzi del 2014? Quella lontana (e vicina) storia parla delle passioni di un gruppo di ventenni che volevano fare i cronisti in Sicilia, una terra di silenzi informativi. Quella vicenda parla di un maestro di giornalismo e dei suoi allievi che impararono una lezione di libertà con lui, un bravo maestro: tutti i ragazzi — in ogni epoca — invocano buoni maestri. Sanno, se vogliono fare i cronisti, che non c’è giornalismo senza libertà: questo ci diceva Fava, sorridendo.
Ma in quella Sicilia, i margini di libertà di stampa erano a sovranità limitata. C’era “L’Ora” a Palermo, ma anche quel giornale era assediato. E c’erano due giornali soli che tacevano e volgevano lo sguardo altrove. Tacevano.
Noi, con Fava, applicammo una regola che nel 1950 scrisse — guardate che ora cito due nord europei e non Sciascia o Tomasi di Lampedusa — lo scrittore britannico George Orwell: «La vera libertà di stampa è dire alla gente, quel che la gente non si vuol sentire dire». O quella che usò lo scrittore anseatico Thomas Mann nel 1947: «Alla lunga, una verità che ferisce è più forte di qualunque pietosa bugia».
Ecco, nel 1984, da Catania, il mensile “I Siciliani” infranse un muro assurdo di poco pietose bugie: in quella tranquilla città di mafia, il prefetto inaugurava le concessionarie d’auto del boss Nitto Santapaola; il boss andava a caccia con il capo della squadra mobile; il procuratore della repubblica retrodatava a penna i certificati penali delle quattro imprese economiche locali (due delle quali ai vertici nazionali per fatturato tra le aziende edili del settore) per permettere ai titolari — i cavalieri del lavoro — di partecipare agli appalti, in “regola” con le norme antimafia; infine, i quattro cavalieri si facevano curare la guardania dei cantieri dal boss. Dire tutto questo oggi è storia giudiziaria “acquisita”, ma in quella città nessuno scriveva queste notizie. Noi sì lo provavamo andando a cercare le “carte”, scrivevamo «quel che la gente sapeva ma non voleva sentirsi dire». Ed eravamo soli. Per questo Fava fu ucciso.
A Enzo Biagi, sette giorni prima di essere ammazzato e in tv, Fava disse: «I mafiosi siedono in Parlamento», «i soldi riciclati si ripuliscono nelle banche e poi vengono investiti in opere pubbliche», «la mafia è un potere economico da 300mila miliardi di lire di fatturato e sbarca a Milano». Trenta anni fa, erano parole come pietre. Oggi, sono la realtà dei fatti.
E allora? La fiction tv su quel gruppo di ex carusi di 30 anni fa, cronisti “precari” senza stipendio nella periferia dell’impero italiano, racconta che, se fai il cronista anche oggi, bisogna avere il coraggio di tenere gli occhi aperti e di aprirli a chi ti legge o ti ascolta o ti digita. Racconta che i tuoi strumenti di lavoro — il taccuino (allora) o l’iPad (oggi) — bisogna sempre tenerli aperti di fronte ai problemi che ti circondano e che sei chiamato ad affrontare per diventare liberamente adulti.
Quando, come molti di quei “ex ragazzi di Fava”, me ne sono andato via dalla Sicilia, quell’insegnamento civile e professionale me lo sono portato dentro. Ora avevo il dovere di proporlo ai miei figli e ai loro coetanei. Nel 2014, con parole libere e semplici, senza retorica.

Tratto da: La Repubblica del 7 gennaio 2014

In foto: Antonio Roccuzzo

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