di Simona Zecchi - 29 ottobre 2013
Antefatto. Non è storia di oggi perché uscì già il 17 maggio del 2012 da un’intervista di Corradino Mineo al pm della DNA Gianfranco Donadio (foto) (allora procuratore aggiunto della PNA a Salerno). Intervista presente per la visione completa nel canale Youtube ma che vale la pena trascrivere in parte, alla luce dei nuovi elementi di indagine emersi.
Così Donadio: ”Il Pm Tescaroli che ha sostenuto l’accusa contro gli imputati, nel corso della requisitoria ( sentenza d’appello del 7/7/2000 Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, ndr), si occupò di un particolare molto atipico riferito all’attentato. Ossia guanti di gomma e collanti incompatibili con la metodologia degli attentatori che minarono il cunicolo (il livello sotto il manto stradale, ndr) utilizzando attrezzi molto pesanti come guanti da lavoro.” “Il Pm parlò all’epoca – continua Donadio – “di rafforzamento della carica. I tecnici esplosivisti si riferiscono al rafforzamento con il termine esplosivo nobile che rende più efficace l’effetto di devastazione che venne provocato da circa 500 kg di esplosivo non particolarmente nobile”. E ancora “A Capaci c’erano due bombe”.
I Fatti. Dopo la nuova svolta investigativa della procura di Caltanissetta sulla strage di Capaci, intanto, forse non è più possibile mettere in dubbio il supporto di un’altra mano (quella dello Stato) oltre a quella mafioso-militare per l’organizzazione dell’attentatuni che suggellò l’ultima trattativa. E per la quale Paolo Borsellino vide accelerare il corso della propria morte in pochi giorni. Al vaglio del nuovo filone d’indagine come da notizia dell’8 ottobre scorso, infatti, ci sarebbe l’eventuale ruolo di Giovanni Aiello (agente di polizia in pensione dal volto deturpato) e anche quello di una tale Antonella.
E’ del 20 ottobre scorso poi la notizia dell’arrivo di certo esplosivo che sarebbe stato destinato all’ex pm Antonio Ingroia, fatto rivelato da un collaboratore di giustizia di ‘ndrangheta, Marco Marino, il quale sarebbe stato avvicinato da alcuni mafiosi di cosa nostra mentre in detenzione nel carcere Pagliarelli di Palermo tra il 2010 e il 2011. Sono poi cose note le minacce e gli avvertimenti rivolti al pm Di Matteo e agli altri sostituti che si stanno occupando della Trattativa di cui sono in corso le udienze.
Ma per capire questa storia di calcolata distruzione del pool che cerca di scoprire la verità di quelle stragi bisogna seguire un percorso narrativo a ritroso. Un’inchiesta pubblicata quest’anno dalla giornalista Stefania Limiti dal titolo “Doppio Livello” (Chiarelettere, 2013) aveva suscitato qualche polemica sia nei confronti della stessa giornalista che del settimanale che per primo ne pubblicò la recensione (“Il Venerdì” di Repubblica) e il suo autore Piero Melati, da parte proprio della procura di Caltanissetta. Nel libro viene spiegato lo schema sotto ‘falsa bandiera’, ovvero l’utilizzo di una tecnica di origine militare, accostata alle operazioni di camuffamento, come elemento sempre presente nelle dinamiche delle stragi italiane. Allo schema vengono ricondotte le stragi che partono da Portella della Ginestra e arrivano a Capaci, passando per Piazza Fontana. Il sostituto Donadio, sempre schivo nelle apparizioni televisive o restio alle interviste tout court (come se questo possa costituire elemento di gravità, ma oggi alcuni titoli di giornale suggellano la decisone in tal senso del procuratore Messineo sugli interventi mediatici dei giudici) aveva partecipato alla presentazione romana del libro. Da quel giorno gli attacchi interni alla procura antimafia, o ad essa esterni, si susseguono come ad effetto domino.
A giugno un fatto smuove la lenta fissità delle notizie estive: la fuga dalla località protetta nelle Marche del pentito di ‘ndrangheta Nino Lo Giudice, fuga accompagnata da un primo memoriale e rilanciato da un secondo ad agosto, il tutto a distanza di due mesi. Anche Lo Giudice nei suoi precedenti interrogatori, prima di ritrattare pubblicamente avrebbe parlato dello stesso uomo (Aiello), ora iscritto come indagato per strage, e di un’altra persona (Antonella, di cui si sta verificando l’identità). I due memoriali accompagnati da video amatoriali non sortiscono entrambi lo stesso effetto ma ottengono una cosa fondamentale: l’inquinamento sulla credibilità di Lo Giudice. A settembre, sul sito di cronaca e attualità, “fanpage.it”, il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura, ex reggente della cosca Vrenna-Bonaventura (lo stesso che denunciò di recente il tentativo da parte della ‘ndrangheta di attentare alla vita dell’attore Giulio Cavalli), parla già di una commistione tra politica e mafia per screditare i giudici, svelando i retroscena della strategia dei finti pentiti. Fatti di cui aveva parlato in passato agli inquirenti e ad alcuni organi dello Stato: un filo rosso che lega ‘ndrangheta, cosa nostra e pezzi dello Stato, una commistione che oggi acquista una grande rilevanza alla luce dei recentissimi eventi e la cui forza viene confermata proprio dal racconto a ritroso di questi eventi.
Bonaventura, non è più un mistero ormai, si trova a Termoli nel Molise, località che anche questa dovrebbe essere protetta. Località protetta, secondo il programma di “Servizio di Protezione Centrale”, dovrebbe significare identità protette e non protezione fisica costante: una cosa dovrebbe sostituire l’altra. Ma Bonaventura non ha né l’una né l’altra, nonostante il falso cognome sul citofono. E nonostante la buona volontà, a detta del pentito, del nuovo direttore del Servizio. Termoli “dove la gestione di mandamenti occulti da parte dell’organizzazione criminale ‘ndrangheta”- come afferma Luigi Bonaventura - è pane quotidiano ma non fatto quotidiano: la stampa ne parla poco o punto. Proprio Termoli, a pochi chilometri da dove era stata mandata la collaboratrice di giustizia Lea Garofalo dal programma di protezione, Campobasso (la cui identità fu invece scoperta dal marito che la sequestrò e uccise nel 2009 a Milano).
Bonaventura legge i memoriali lasciati da Lo Giudice confrontandoli a quelli video, rilasciati a sintesi degli scritti, come se fossero una mappa. Una mappa che lui conosce bene: ne interpreta i messaggi fuori riga, le incongruenze e le contraddizioni che destano più di un sospetto in questa plateale mossa strategica probabilmente mirata a far saltare un percorso che l’ormai ex pentito Lo Giudice stava compiendo. Bonaventura conferma all’autrice di questo articolo quanto segue: <<Del piano in corso sul Lo Giudice avevo già riferito agli inquirenti, nome che feci tra gli altri come quello di Antonio Di Dieco il quale, secondo il falso pentito Francesco Amodio, che mi avvicinò la prima volta, era disponibile a far parte del piano>>. (Antonio Di Dieco ha ricevuto recentemente dal GIP di Roma, Cinzia Parasporo, una ordinanza di custodia cautelare in carcere). Di Dieco, infatti, era già indagato per presunte false dichiarazioni nei confronti del Lo Giudice. In questi giorni lo stesso Cisterna è sotto il fuoco del Tribunale della Libertà di Roma per gli scambi poco opportuni tra lui e il difensore di Di Dieco, Claudia Conidi.
I nomi e i fatti che Bonaventura ha già rivelato agli inquirenti in tempi non sospetti (nel 2011) sono tutti segnati da appunti da lui raccolti e da noi visti, comunque già apparsi nelle sue interviste video. Scritti pieni di memorie e riflessioni sui fatti che mano a mano gli accadevano: abbordaggi, avvicinamenti e minacce anche da parte di uomini che erano preposti alla sua protezione. <<I nomi fatti dal Lo Giudice – continua Bonaventura - sono quasi tutti gli stessi fatti a me tra magistrati e funzionari, la loro strategia è quella di farti dire nomi che appartengono alla stessa area di provenienza: Crotone>>. <<Fatto – continua Bonaventura - che va collegato con Lo Giudice in quanto gli stessi funzionari e magistrati avevano sentito il pentito nei vari procedimenti.>> Il funzionario Renato Cortese, il magistrato Pignatone, nomi fatti dal Lo Giudice che si collegano a queste dichiarazioni. Questo punto è molto importante perché sottolinea la fine peculiarità della strategia di delegittimazione portata avanti nei confronti dei pentiti e di alcuni magistrati. Appurare se e quali di essi è giustamente tirato in ballo o meno dal Lo Giudice è compito delle procure che stanno seguendo il caso, come ha dichiarato a chi scrive in una precedente intervista il procuratore capo di Reggio Calabria De Raho. Delegittimazione o tentativi di corruzione dunque per tornare alla vita di prima magari da finti pentiti protetti dallo Stato, come ha denunciato lo stesso Bonaventura. Patto che il Bonaventura non ha accettato andando incontro a un rischio quotidiano per lui e la sua famiglia sapendo anche lui che chi tocca certi livelli, nel suo caso testimoniando, brucia. In fondo per questo ha deciso da un po’ di tempo ormai di non celare più la località in cui si trova: è inutile e forse paradossalmente più sicuro.
Tra gli elementi che screditerebbero le testimonianze rese nei memoriali dal Lo Giudice, secondo la lettura e l’esperienza di Bonaventura, vi è la dinamica delle pressioni che avrebbe ricevuto l’ex pentito Lo Giudice in fuga da questo o quel magistrato. Pressioni che, leggendo i memoriali, Lo Giudice denuncia in modo più crudo proprio verso il magistrato Gianfranco Donadio. Donadio, era stato a suo tempo incaricato da Piero Grasso di svolgere indagini sulle stragi del 92-93 ed era arrivato a uno schema particolare di compartecipazione nelle stesse, un doppio livello militare e mafioso. A Donadio poi è stata avocata l’indagine sulle stragi (altro successo ottenuto da questo sottile piano di delegittimazione). Proprio qualche giorno fa davanti alla prima commissione del CSM, il pm ha difeso il proprio operato affermando di non avere alcuna responsabilità nella fuga di notizie sulle indagini (nella quale sono coinvolti due quotidiani: “Il Sole24” e L’Ora di Calabria) né di aver mai oltrepassato i termini della delega alle indagini ricevuta da Grasso. Tra i magistrati che avrebbe dovuto delegittimare Bonaventura non vi era Donadio, come risponde su domanda il pentito, ma la dinamica sottesa a questi eventi è tanto più importante a confermarlo: al pentito non costerebbe nulla dire anche ciò che non sa e invece riferisce solo ciò che sa e pensa:
<<Quello che riferisce Lo Giudice, la dinamica che si evince dai suoi racconti è totalmente non credibile>> – continua Bonaventura - << I luoghi deputati ad incontrare i magistrati durante i colloqui e le deposizioni sono assolutamente controllati, monitorati e registrati: ci sono poliziotti, i legali che assistono, ecc. Comunque tutte persone terze che potrebbero avere un ruolo di testimonianza nel caso si verificassero episodi di minaccia simili. A me non è mai successo, e il tutto è riscontrabile dai verbali: c’è una precisa volontà in tutta questa storia di attaccare la magistratura, l’unica invece che oggi può fungere da punto di riferimento e che per me rappresenta la vera essenza dello Stato>>.
Fatto invece fondamentale nella disamina del tutto, secondo sempre il Bonaventura, sarebbe il resoconto dell’abbordaggio cui sarebbe incorso il Lo Giudice e di cui fa riferimento nel memoriale: <<Qui Lo Giudice sembra che inconsapevolmente o meno si contraddica; essere avvicinato da persone esterne in un luogo cosiddetto protetto è proprio quanto è accaduto a me>>. E’ qui che le contraddizioni sono importanti. Certo resta da capire ancora quale parte detta da Lo Giudice è vera e quale no. Ma nel piano di delegittimazione la confusione e la messe di accuse uguali e contrarie sono parte della strategia. D’altronde lo stesso avvocato Giuseppe Nardo che nei memoriali Lo Giudice sembrerebbe nominare come suo, destituendo l’altro, in una intervista di fine agosto all’autrice di questo articolo aveva dichiarato con molta evidenza come lo stesso fatto e quanto dichiarato denunciassero “una grave situazione di frattura all’interno delle correnti di magistratura della Procura di Reggio, fatto che certo non rassicura i cittadini”. Insomma derubricare tutto a una lotta interna alle procure sembra il mantra che serve a confutare tutto.
Bonaventura dichiara anche un fatto mai prima reso noto ad alcun organo di stampa, che seppure è solo una sua percezione quanto meno lancia un allarme sul servizio effettivo di protezione che dovrebbe ricevere Bonaventura:<<Ho avuto anche il sospetto che tra i personaggi che si accompagnavano con i De Stefano-Tegano agli abbordaggi in cui mi hanno coinvolto ci fosse anche qualcuno dei servizi>>.
Per il superpentito Bonaventura, che ha collaborato ad oggi con ben 9 procure nazionali e una internazionale, attestandone sin qui l’attendibilità, la mossa di Lo Giudice è <<una mossa preparata a dovere e con grande anticipo>>, che demolirebbe la reazione di sdegno e mal sopportazione raccontata dal Nano nei memoriali (così viene anche chiamato Lo Giudice). <<Se così fosse>> – continua Bonaventura – <<allora lo racconti agli inquirenti, lo racconti subito non ti prepari a dicembre, o forse prima, per poi uscire a giugno>>.
C’è inoltre un importante distinguo, quasi la notizia di questo articolo, che fa Bonaventura riferendosi a una sua passata intervista resa a Rainews24 nel 2012 sempre riguardo al piano di delegittimazione. Nell’intervista fece alcuni nomi di politici che sarebbero stati obiettivo di delegittimazione (Berlusconi, Alfano, Maroni). Il superpentito ci tiene oggi a precisare senza riferirsi a nessun politico in particolare che la delegittimazione politica come piano strategico è soprattutto elemento di ricatto alla corrente interna di quegli stessi partiti che in larga parte appoggiano o hanno appoggiato le ‘ndrine. Era ciò che voleva dire in quei pochi minuti ritagliati nell’intervista. E’ Bonaventura stesso ad affermare che quando si trovava in carcere riceveva indicazioni di voto specifiche. Dunque il nome di questo o di quel politico, viene fatto con la consapevolezza che serva a una o più correnti avverse nello stesso partito. Insomma utilizzare alcuni pentiti sensibili a certi richiami, e magari anche stanchi di lottare in un sistema che spesso protezione non dà, per dare avvertimenti al proprio avversario di corrente.
Lasciare Termoli e il peso degli occhi addosso non è stato più facile che entrarvi, perché nel frattempo si è potuta constatare la condizione in cui vivono Bonaventura e i suoi familiari, che lo hanno seguito in questa lotta contro un mondo ormai rinnegato. Luigi ripete spesso le parole “dissociato” e “collaboratore” nel suo discorso, perché insieme i due termini convogliano in quello unico di pentito troppo spesso abusato. Chiude il collaboratore con un messaggio che è quasi un appello:<<L’arma dei collaboratori di giustizia potrebbe essere più efficace se anche la politica facesse il proprio dovere: se desse gli strumenti giusti al programma di protezione e non ostacolasse l’opera dei veri collaboratori che vogliono dare un contributo alla giustizia riparando i fatti criminosi commessi nel proprio passato>>. Bonaventura è in attesa di vedere accettata la sua richiesta per la protezione in luogo diverso dal territorio italiano così come quella ripetuta più volte, ma senza esito, di una scorta.