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3di Arianna Catania - 9 agosto 2013
È stata la prima donna fotografa a entrare in una redazione. Ha raccontato la Palermo degli anni più bui, delle guerre di mafia, degli attentati, del degrado. Parla la grande artista siciliana.
Letizia Battaglia ha uno sguardo consapevole e una forza interiore che trasmette anche in silenzio, tra il fumo delle sue sigarette. Senza le sue immagini sarebbe mancato un pezzo di storia. Senza di lei ci sarebbe stato un buco nella storia della fotografia. Nata a Palermo nel 1935, inizia a collaborare per il quotidiano L’Ora, durante la sua permanenza a Milano. Nel 1974 torna nella sua città, in cui intanto si è scatenata una guerra vera, la guerra di mafia. Testimone di una delle fasi più buiE del nostro Paese, è la prima donna fotografa a entrare in una redazione ed è la prima donna a fotografare il potere mafioso. Dopo una lunga carriera, fatta di politica e impegno, nel 1992, dopo la morte di Falcone e Borsellino, decide di non fotografare più morti ammazzati. Da qualche anno ha un sogno: un museo della fotografia ai Cantieri della Zisa, che sarà luogo di incontro e studio per dare spazio al talento.

«Convivere con la paura ma non farci condizionare da essa. Il coraggio è questo», diceva Giovanni Falcone. La sua vita è stata segnata dal coraggio. Ha mai avuto paura di trovarsi davanti a mafiosi e morti ammazzati?
Non si può immaginare cos’era Palermo in quegli anni. Io sono arrivata nel 1974 da Milano piena di voglia di fotografare, di stare nella mia città, di lavorare per il quotidiano comunista L’Ora. E invece non si riusciva a vivere serenamente perché il telefono squillava di continuo. E bisognava correre. Saliva la rabbia, lo sdegno. Ci chiedevamo come mai in Italia e nel mondo nessuno muoveva un dito per proteggerci. Quando i giornalisti stranieri venivano a Palermo, mi chiedevano di incontrare i mafiosi. E mi arrabbiavo perché vuol dire che non avevano capito niente.

Cosa l’ha spinta a fotografare la mafia? Aveva momenti di sconforto?
Io credo di aver superato paura e sconforto perché amo la vita. Ho sentito un dovere e un impegno forte che non potevano essere schiacciati. Quando impari il coraggio e la giustizia puoi solo scegliere questi valori e rimanergli fedele.

Conoscendo il suo lavoro, è difficile etichettarla solo come fotografa. Mi incuriosisce però capire per quale ragione è infastidita dalla definizione di “fotografa della mafia”. Il mondo la riconosce per questo, ed è stata una grande conquista far parte di una battaglia politica così importante.
1Mi infastidisce perché mentre fotografavo i morti ammazzati, cercavo sempre lo sguardo caro, dolce di una creatura in cui ci fosse un’anima. Un’anima che raccontava un dolore. Ero l’unica donna a fotografare la cronaca ed è stata una coincidenza importante ma io, in quel momento, sentivo di dover raccontare, non ero né uomo né donna. Ho sempre pensato che la fotografia non è mai veramente obiettiva. La partecipazione a un fatto dipende anche da come lo componi. I fronti erano due: la mia coscienza e quello che chiedeva il giornale. Alcuni aneddoti che ricordo: in un paesino siciliano, mandarono un fotografo a coprire un fatto di sangue. Suonarono alla porta, la madre aprì, le dissero che suo figlio era stato ammazzato, lei svenne, il fotografo fece la foto che voleva e andò via. E spesso i giornali stranieri chiedevano delle foto coi fichi d’india accanto ai cadaveri. Molti fotografi si piegavano a queste logiche, io evitavo in tutti i modi.

La fotografia per lei è stata uno sguardo per filtrare il mondo? Un’arma? Un atto di denuncia?
Tutti questi aspetti erano presenti in me. E, oltre l’impegno, c’era una grande passione e rispetto per la fotografia. Inoltre questo lavoro mi ha salvato dalla decomposizione, dalla scomposizione della mia psiche. Grazie alla fotografia sono riuscita a trovare un equilibrio interiore.

Fotografare violenza e dolore. Nelle sue immagini c’è sempre un grande rispetto.
Credo che sia qualcosa di istintivo ma il mio scopo era quello di glorificare la morte di qualcuno che era caduto per mano violenta. Glorificare la morte, il dolore e la vita. Non ho mai voluto presentare il degrado in modo degradato. Io ho vissuto e vivo in simbiosi con la storia, accompagnata sempre dall’idea forte che bisogna cambiare il mondo. E provo a trasmettere questa visione ai giovani.

Purtroppo oggi spesso si cerca il dolore altrui, rappresentandolo in maniera distorta. Cercando immagini che si possano vendere. O fatte ad hoc per vincere un premio.
So solo che io il dolore me lo trovavo davanti quotidianamente. E non avevo tempo di pensare ai premi. I premi sono arrivati dopo. E, i più importanti, americani. In Italia è come se mi avessero respinta. Ricevo solo piccoli premi nei paesini. E quando li ricevo li accolgo con stupore e mi commuovo, come il Cornell Capa. Lì ho pianto. è come un bambino in un orfanotrofio che riceve una carezza.

Come spiega questa mancanza di riconoscimento in Italia?
Non lo so. Indubbiamente il lavoro che ho fatto disturba. E' possibile che in un Paese europeo non si sia bloccata e non si blocchi la mafia? Se oggi non si ammazzano più sindaci, giudici, poliziotti, giornalisti è perché c’è stato un grande patto. E' evidente.

La mafia è una questione siciliana?
Credo che sia partita dalla Sicilia ma che poi abbia trovato terreno fertile in America, in Europa e nel Nord Italia. I siciliani hanno trovato complici come Sindona, Gelli o Andreotti.

Cosa ha pensato quando Andreotti è morto?
Ho provato un certo rammarico perché la verità non è venuta fuori. Non lo perdonerò mai.

La foto di Andreotti con i fratelli Salvo, mafiosi, è un’inchiesta in una sola immagine. Ci racconti com’è andata.
Era il 1979 e il giornale mi mandò a fotografare un congresso della Dc in cui c’erano Andreotti e Ciancimino. Non sapevo di aver fatto quest’orribile immagine, mossa e sfocata. Infatti la foto non fu pubblicata. Anche perché nessuno sapeva che lì c’era uno dei fratelli Salvo. Tanti anni dopo la Dia bussa alla porta di casa per perquisire il mio archivio. Dopo sette ore di ricerche si portano via un po’ di negativi. Dopo vari mesi mi chiamarono per dirmi che nella mia foto brutta di Andreotti c’era la prova lampante che conosceva i fratelli Salvo. E non ho mai riavuto il negativo. La mia foto è servita a dimostrare che Andreotti i mafiosi li incontrava, e che lui è stato assolto per prescrizione. Dopo non ci sono state più fotografie e testimonianze.

2La fotografia oggi può ancora fare informazione?
Deve farlo. Anche se il senso e il valore della fotografia non è più quello di una volta. Noi non potevamo cambiare le cose. Oggi invece con l’avvento del digitale si può deviare la realtà e non è possibile verificare.

Qual è oggi il suo ruolo?
La fotografia deve riorganizzarsi. C’è una gran confusione, non si capisce più qual è la buona fotografia. E questo anche per colpa dei social network. Si deve tornare a riflettere. La buona fotografia nasce da un progetto, dalla cultura e dalle esperienze personali. Da buoni maestri.

Oggi servirebbero immagini più impegnate che raccontino degrado, abusivismo, violenza sulle donne. Insomma fotografare l’Italia. Ma fotografi e giornali sembrano essere poco interessati. Come se lo spiega?
I giornali non accolgono queste foto e non stimolano la produzione di questo tipo di racconto. Lo reputano troppo triste. Inoltre molti non rispettano le immagini. Non le lasciano respirare, con l’impaginazione e i tagli avventati. Bisogna diventare indipendenti, editori di se stessi. L’interesse per la fotografia c’è e lo dimostrano i numerosi festival e workshop, ma mancano finanziamenti e sostegno delle istituzioni.

C’è un’immagine a cui è più legata?
Sono legata a tutte allo stesso modo. E' come avere cinque figli e sceglierne uno.

C’è n’è una che rimpiange di non aver fatto?
Non ho fotografato, volontariamente, Borsellino e Falcone. Ero in via D’Amelio quando ammazzarono Borsellino, e ho deciso di non fotografare perché c’erano ancora i corpi non coperti, pezzi di carne sugli alberi, teste mozzate. Falcone volevo fotografarlo in ospedale perché mi avevano detto che era ferito. Ma non ce l’ho fatta. Eravamo profondamente legati a loro, li avevamo adorati. E mi rendo conto che non potevo più fotografare quell’orrore.

I suoi soggetti femminili sono sempre vivi. Gli uomini più spesso morti. Cosa hanno in più le donne?
Le donne amano. E amare significa condividere. Non vuol dire possedere.

Tratto da Left n. 30

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