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limiti-stefaniaRiceviamo e pubblichiamo la replica della scrittrice Stefania Limiti in risposta all’intervento del procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo

26 aprile 2013
Caro procuratore Gozzo,
Nel suo intervento mi rivolge delle accuse infamanti in merito al mio ultimo libro, Doppio livello. Le rispondo a caldo, per dire ai lettori di Antimafia 2000 che le cose non stanno affatto come lei dice.
Per smontare il mio lavoro, infatti, prima si dichiara un non complottista, poi non trova di meglio che adombrare l’idea dei “soliti servizi” che, puntuali, intervengono per manipolare i giornalisti e “indirizzare” l’ultima operazione della procura. Visto che ho lavorato anni e ho chiuso questo lavoro circa tre mesi fa, e visto che proprio nulla sapevo delle indagini della procura di Caltanissetta, è ridicola la sua illazione di una “operazione a tempo”, tutta rivolta verso un solo scopo, quello di “indirizzare” la vostra azione investigativa che riguarda, non so se esaurisce, il quadro complessivo delle responsabilità esecutive della strage di Capaci: solo che, oltre che ridicola, è, appunto, infamante perché mi accusa di farmi manipolare, di scrivere sotto dettatura.

Non la querelo perché ho rispetto dei magistrati antimafia tra i quali purtroppo persistono profonde e laceranti divisioni perché, caro procuratore Gozzo, ho l’impressione che l’obiettivo dei suoi attacchi scomposti e alquanto sterili non sia solo il mio libro – con ben poco stile neanche mi nomina, né nomina il titolo del libro. Ma su questo lei non è chiaro, come purtroppo non sono mai state chiare per l’opinione pubblica le tante polemiche che hanno diviso, direi drammaticamente lacerato in questi anni la magistratura.

Inoltre, mi lasci dire che non è elegante da parte sua l’attacco così velenoso nei confronti di un libro che evidentemente non ha letto. Provo qui a sintetizzare la mia intenzione - giudicheranno i lettori se centrata o meno. Ho tentato di raccontare il doppio livello della destabilizzazione raccogliendo con gran fatica (senza nessun suggeritore perché io non busso alle porte delle procure per fare il mio lavoro) tutti quegli elementi che raccontano la presenza di presenze “esterne” nelle azioni di terrorismo, mafioso o non. Ho cercato di spiegare che il doppio livello si realizza quando siedono ad un ideale tavolo di pianificazione soggetti diversi che hanno gli stessi obiettivi, oppure quando qualcuno viene indotto a credersi l’artefice di una azione ideata da altri. Si tratta delle cosiddette operazioni “sotto falsa bandiera” le quali non ‘declassano’ chi fa l’operazione a semplice esecutore: Cosa nostra, cioè, non sarebbe al servizio di nessuna causa stragista ma compartecipe di un progetto – per Capaci la vendetta contro il giudice Falcone. Dalle parole del suo capo, si direbbe che fu quasi ‘giocata’, cioè indotta a realizzare il suo scopo - ammazzare Falcone - con modalità tipiche di una azione militare probabilmente non alla portata dei killer di Cosa nostra. Totò Riina disse tempo fa di sentirsi ‘fregato’, ma il vecchio capo non dice da chi. Quel giorno l’operazione riuscì ‘così bene’ che non ci fu bisogno neanche di depistare le indagini. La presenza di uomini senza volto fu infatti mimetizzata alla perfezione, fu anche curato un aspetto importante della scena del crimine da cui fu ‘sfilato’ Pietro Rampulla, l’artificiere, il fascista, protagonista di tutta la preparazione ma quel giorno assente per motivi di famiglia…La mia ricostruzione dell’operazione del 23 maggio è finalizzata a descrivere questo scenario sulla base di molti elementi che lei però non considera affatto. Si riferisce solo ai guanti in lattice trovati ad una sessantina di metri dal cunicolo, ma lì c’erano anche altre cose (un sacchetto di carta bianco con torcia a pile, un tubetto di alluminio con del mastice di marca Arexons): per quanto ne so, nessuno parla di quei guanti, le dichiarazioni dei pentiti, tra cui La Barbera, fanno riferimento ai guanti da chirurgo usati per le operazioni di travaso dell’esplosivo fatte nella casa di Troia a Capaci. Parlo poi dei tanti “buchi neri” investigativi, del resto ampiamente ammessi dagli stessi inquirenti, per descrivere un quadro complessivo che, oltre ogni ragionevole dubbio, consente di affermare che a Capaci non c’erano quel giorno solo gli uomini di Totò Riina. Una verità ormai acquisita, anche se, purtroppo, non in sede giudiziaria, ben diversa da quella dell’inchiesta giornalistica – che pure in questo caso raccoglie dubbi, indizi ed elementi concreti disseminati in vari atti giudiziari. Del resto lei stesso lo scorso 16 aprile ha sottolineato l’esigenza di “chiarire i motivi che portarono il boss Toto' Riina a scegliere la strategia terroristica”. Un dubbio che vogliamo relegare ai dettagli insignificanti della storia di Capaci? E noi giornalisti nel frattempo che facciamo, stiamo zitti e buoni, sennò voi vi arrabbiate?

Stefania Limiti


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