Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

caponnetto-antonio2-shobadi Danilo Rota - 11 dicembre 2012
Caro nonno Nino,
il giorno in cui ci hai lasciato, il 6 dicembre di dieci anni fa, abbiamo perso una guida saggia e affettuosa, la cui partenza ha provocato e provoca tuttora un profondo senso di solitudine.

Nascesti a Caltanissetta il 5 settembre 1920, anche se la tua famiglia di origini catanesi lasciò la Sicilia quando avevi solo pochi mesi di vita. Andasti a vivere tra il Veneto e la Lombardia, poi – compiuti i tuoi primi 10 anni – i tuoi si trasferirono a Pistoia.
Dopo esserti laureato in giurisprudenza a Firenze, nel 1954 vincesti il concorso in magistratura. Il tuo primo incarico fu quello di pretore a Prato.
Erano gli anni in cui mentre ti formavi come giudice e come uomo, contemporaneamente si costituiva anche la neonata Repubblica italiana. Dalle macerie – morali e materiali – ereditate dagli orrori del ventennio fascista e del secondo conflitto mondiale era nata la nostra Costituzione, da te ammirevolmente amata e strenuamente difesa. Nonostante essa avesse contemplato la nascita di una Corte Costituzionale che giudicasse “sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi” (art. 134), avremmo dovuto attendere l’approvazione della legge 11 marzo 1953, n. 87 affinchè lo Stato introducesse le “norme sulla costituzione e sul funzionamento” della Consulta.
A quel tempo fosti chiamato a emettere sentenza – tra i diversi casi sottoposti al tuo giudizio – in due processi penali, i cui imputati erano accusati di aver violato l’art. 113 del Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza), secondo il quale era necessaria la licenza dell’autorità di pubblica sicurezza per distribuire, mettere in circolazione o affiggere in luogo pubblico scritti o disegni e fare uso di mezzi luminosi o acustici per comunicazione al pubblico.
Da autentica persona democratica e civile, eri convinto che la norma fascista contrastasse con l’art. 21 della Costituzione repubblicana (secondo il quale “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”). Per questo motivo, pur essendosi costituita la Corte Costituzionale soltanto da pochissimi giorni (i  giudici avevano prestato giuramento il 15 dicembre 1955, mentre il 23 dicembre avevano eletto Enrico De Nicola – già primo Presidente della Repubblica dal 1946 al 1948 – quale primo Presidente della Corte), il 27 dicembre 1955 emanasti due ordinanze (una per ciascun processo) con cui sospendesti il giudizio per rimettere la questione di legittimità costituzionale alla neonata Consulta.
Nonostante la tua tenera età (avevi solo 35 anni) e fossi in magistratura da appena un anno, fosti il primo magistrato italiano a rivolgersi alla Corte Costituzionale, anche se nella medesima controversia avrebbero poi seguito il tuo esempio altri 25 giudici.
Le tue argomentazioni furono avversate dall’Avvocatura dello Stato (che rappresentava il Presidente del Consiglio democristiano Antonio Segni), la quale sostenne che la Corte non potesse pronunciarsi sulle leggi emanate prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e che – in ogni caso - la norma fascista fosse legittima.
La prima, storica sentenza della Corte Costituzionale (14 giugno 1956, n. 1) smentì clamorosamente le tesi del capo del governo, accogliendo invece le tue e quelle – omologhe – di tutti gli altri magistrati.
La Consulta, infatti, non solo si dichiarò competente a vagliare la legittimità delle leggi precedenti all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana (con la motivazione secondo la quale la Corte è chiamata a giudicare “le leggi” senza alcuna distinzione e le norme costituzionali prevalgono sempre sulle leggi ordinarie), ma – entrando nel merito della questione da te sottoposta – dichiarò incostituzionale la disposizione fascista, in quanto lesiva del diritto di libera manifestazione del pensiero sancito dall’art. 21 della Costituzione.
Esattamente ciò che tu auspicavi.
Il ragionamento della Corte fu semplice. I poteri conferiti all’Autorità di pubblica sicurezza dall’art. 113 del Regio Decreto del 1931 erano discrezionali e illimitati, dunque il diritto di espressione dipendeva dalla concessione di un’autorità non soggetta ad alcun vincolo. Concedere o negare un’autorizzazione in base all’uso di poteri indeterminati e discrezionali, indipendentemente dai fini di tutelare la tranquillità pubblica e di prevenire la commissione di reati, poteva dunque significare consentire o impedire la libera manifestazione del pensiero. D’altra parte, le attività di polizia devono essere delineate e contenute entro i confini di una sfera di applicazione che non può di certo essere arbitraria.
Un significativo riconoscimento all’importanza di quel primo, importante verdetto della Corte provenne dalle parole di Piero Calamandrei, uno dei membri di quell’Assemblea Costituente che in soli 18 mesi (dal 25 giugno 1946 al 22 dicembre 1947) aveva pensato, scritto e approvato la nostra bellissima Carta fondamentale: “Questa prima decisione serve a consolidare la democrazia più che mille comizi di una campagna elettorale” (Calamandrei, del resto, aveva partecipato alla discussione presso la Consulta in qualità di avvocato di una persona imputata a Mantova per la violazione del medesimo Regio Decreto n. 773/31).
Fu la tua prima, grande soddisfazione.
Per i successivi 27 anni conducesti senza clamori il tuo ruolo giurisdizionale, fino a ricoprire l’incarico di sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Firenze.
Poi successe qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la tua vita e quella di un’intero Paese.

Sconvolto dalle immagini di quella terribile strage, sentisti dentro di te il richiamo della tua terra d’origine (che di fatto non avevi mai conosciuto) e un profondo senso del dovere, quella non comune sensazione di dover fare a tutti i costi qualcosa per il bene del proprio Paese. Conoscevi ben poco di mafia, non te ne eri mai occupato da magistrato. Saresti potuto restare a Firenze a occuparti di reati “comuni”, invece chiedesti al Consiglio Superiore della Magistratura di essere trasferito a Palermo per prendere l’incarico che era stato ricoperto dai magistrati Terranova e Chinnici, barbaramente uccisi da Cosa Nostra nell’arco di soli quattro anni di distanza l’uno dall’altro.
Del resto, non sarebbe potuto essere solamente questo il tuo unico motivo di preoccupazione.
In quegli anni la mafia non aveva ucciso solo i due giudici, ma numerosi altri fedeli servitori delle Istituzioni:- il segretario provinciale di Palermo della Democrazia Cristiana Michele Reina (9 marzo 1979);
- il capo della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano (21 luglio 1979);
- il presidente democristiano della Regione Sicilia Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980);
- il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile (3 maggio 1980);
- il procuratore capo di Palermo Gaetano Costa (6 agosto 1980);
- il deputato e segretario regionale siciliano del Partito Comunista Pio La Torre (30 aprile 1982);
- il prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa (3 settembre 1982);
- il sostituto procuratore di Trapani Giangiacomo Ciaccio Montalto (25 gennaio 1983).
Inoltre i boss di Cosa Nostra erano contemporaneamente impegnati a combattere una sanguinosa faida interna (ribattezzata “seconda guerra di mafia”), iniziata il 23 aprile 1981 e terminata il 30 novembre 1982, in cui si contrapponevano i Corleonesi di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano (smaniosi di scalare i vertici dell’organizzazione criminale a suon di centinaia di omicidi, impadronendosi – loro soli – dell’intera Cosa Nostra) e la cosiddetta “ala moderata” che aveva comandato fino ad allora, rappresentata dai boss Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti, Salvatore Inzerillo, Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone.
Un ulteriore, non meno pericoloso nemico cui necessariamente andavi incontro era la quasi totale indifferenza che investiva le questioni di mafia, di cui venivano addirittura negate l’esistenza e la pericolosità.
Nonostante tutte le difficoltà, non ci pensasti un attimo: eri disposto a rinunciare al tuo comodo e tranquillo incarico presso il capoluogo toscano per schierarti al fronte, in prima fila, al solo scopo di proseguire quella giusta battaglia iniziata da pochissimi uomini che avevano già capito tutto, quando l’intera nazione intorno a loro si rifiutava di sapere e vedere.
Nel settembre 1983 il Csm accettò la tua domanda con 28 sì e 3 astenuti: diventasti così il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.
Giunto nel capoluogo siciliano il 9 novembre successivo, fosti subito chiaro con i tuoi colleghi: avresti ripreso e realizzato il metodo di lavoro introdotto per la prima volta dal tuo compianto predecessore Rocco Chinnici. Avresti cioè organizzato l’ufficio giudiziario garantendo un’efficace e razionale impostazione del da farsi, attraverso il lavoro di squadra e lo scambio di informazioni tra pochi, ma selezionati magistrati, i più esperti nel contrasto alla mafia. Sviluppasti e facesti nascere il famoso pool antimafia di Palermo, da te presieduto e composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli, tutti classe 1940 (tranne Falcone, classe 1939), dunque anagraficamente tuoi figli.
Insieme a loro redigesti la storica ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 706 emessa l’8 novembre 1985, con cui rinviasti a giudizio ben 475 presunti mafiosi, dando il via al primo maxiprocesso a Cosa Nostra (celebrato in 1° grado dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987). Le tesi ivi sostenute ressero anche in Cassazione, la quale – rendendo definitive molte e pesantissime condanne di importanti boss mafiosi e annullando con rinvio numerose assoluzioni statuite in 2° grado – segnò un punto di svolta nella lotta alla mafia: nella secolare storia dell’organizzazione criminale siciliana, infatti, non era mai accaduto che i propri esponenti – e in così gran numero – venissero condannati all’ergastolo senza più possibilità di appello.
Era il 30 gennaio 1992.
Contribuisti, così, a scrivere una nuova, fondamentale e indimenticabile pagina di storia del nostro Paese, sconvolgendo la consolidata abitudine dei mafiosi all’impunità o – nel peggiore dei casi – a un modesto numero di anni di reclusione.
Un altro documento da te firmato di notevole importanza fu l’ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 162 del 17 luglio 1987, in cui ”creasti” il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, tanto vituperato e oggetto di mai sopiti tentativi depotenzianti da parte di personaggi politici con pesanti scheletri negli armadi. In tale testo giudiziario, tu e i tuoi uomini scriveste parole assai chiare:
“Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono – eventualmente – realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili – a titolo concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa convergenza di interessi col potere mafioso che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonchè, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”.
Nell’autunno di quello stesso 1987 chiedesti di essere trasferito nella tua Firenze (dove avevi lasciato moglie e figli) per trascorrervi gli ultimi anni di servizio prima della pensione. Speravi che il Csm avrebbe nominato quale tuo successore Giovanni Falcone, anche se temevi fortemente che il Consiglio Superiore della Magistratura avrebbe deciso diversamente. Per questo motivo – ovvero per evitare la temuta disgregazione del pool antimafia a seguito della nomina di un magistrato esterno al formidabile gruppo di lavoro ideato da Chinnici e da te realizzato – eri disposto a rimanere a Palermo ancora un paio d’anni (tempo necessario prima di raggiungere il pensionamento), nella constatazione di non avere alcuna solida certezza che il tuo successore sarebbe stato Falcone. Anzi, avendo sentore delle difficoltà che quest’ultimo avrebbe incontrato a causa delle sue numerose inimicizie, avevi già preparato un telegramma (che tenevi sempre a portata di mano sulla tua scrivania) da inviare al Csm in cui chiedevi di revocare il trasferimento in Toscana. Fu proprio Falcone a convincerti a stracciare quel pezzo di carta, rassicurandoti sul fatto che il Csm avrebbe scelto lui. Del resto, chi altri più di Giovanni Falcone aveva maturato “sul campo” (prima con Chinnici, poi con te) un’esperienza simile in materia di lotta alla mafia (riconosciuta persino in ambito internazionale), dimostrando una competenza, una professionalità e una conoscenza delle carte processuali senza eguali?
Purtroppo i tuoi timori si rivelarono fondati.
Infatti la sera del 18 gennaio 1988 (ovvero un solo mese dopo le condanne e gli ergastoli inflitti in 1° grado di giudizio a numerosi boss mafiosi nel maxiprocesso istruito da te e dal tuo pool) il Csm scelse Antonino Meli (14 voti favorevoli contro i 10 per Falcone, con 5 decisivi astenuti) basandosi unicamente sul criterio dell’anzianità.
Il 14 marzo 1988, dopo 4 anni e 4 mesi di intenso lavoro e di duri sacrifici personali, lasciasti l’Ufficio Istruzione di Palermo di fronte a un Falcone in lacrime, con il rimpianto – l’unico della tua vita – di non aver spedito quel telegramma di revoca.
Il tuo successore, Antonino Meli, impiegò solo pochi mesi per smantellare il pool antimafia e disperdere in mille rivoli le indagini contro la criminalità mafiosa, suddividendole fra le diverse procure siciliane in base alla competenza territoriale. Le ineguagliabili professionalità e competenze dei migliori magistrati antimafia furono così sciaguratamente disperse.
Il 5 novembre 1990 fosti collocato in pensione con il grado di Presidente onorario aggiunto della Cassazione.
Poi le stragi, prima Capaci (23 maggio 1992), poi via D’Amelio (19 luglio 1992), che ti “costrinsero” a scendere a Palermo due volte in due mesi per salutare i tuoi figli, amici e fratelli Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Quelle tue poche parole, “è finito tutto”, pronunciate all’uscita dell’obitorio dopo aver recato visita ai resti di Paolo Borsellino, furono la conseguenza di un comprensibile momento di sconforto, per il quale avresti poi sentito la necessità di chiedere perdono. Lo facesti con le parole, ma soprattutto con una decennale opera di testimonianza, sempre appassionata e commovente. Dal 1992 al 2002, infatti, nonostante l’età avanzata, attraversasti l’Italia per mantenere viva la memoria di Giovanni e Paolo e per trasmettere il tuo intenso e contagioso impegno civile, in particolare agli studenti e ai giovani.
Quei giovani che tanto amavi e su cui riponevi tanta fiducia per l’avvenire.
Quei giovani che, con affetto e simpatia, ti corrispondevano, chiamandoti spontaneamente “nonno Nino”.
Quei giovani che, come me, non hanno avuto la fortuna di conoscerti personalmente, ma che custodiranno sempre nella mente e nel cuore il ricordo della tua vita, delle tue parole e dei tuoi preziosi insegnamenti.

“Ragazzi, godetevi la vita, innamoratevi, siate felici, ma diventate partigiani di questa nuova resistenza, la resistenza dei valori, la resistenza degli ideali.
Non abbiate mai paura di pensare, di denunciare e di agire da uomini liberi e consapevoli.
State attenti, siate vigili, siate sentinelle di voi stessi!
L’avvenire è nelle vostre mani.
Ricordatelo sempre!”

Tratto da:informarexresistere.fr

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos