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Ci fu un tempo l’età del bronzo. Poi è scorsa un po’ di storia. Ed è arrivata l’età delle facce di bronzo. Implacabile. Scruti il pianeta da est a ovest, da sud a nord, e ti chiedi sgomento se per arrivare ai massimi livelli degli stati e della politica sia obbligatorio avere quel tipo di faccia. Che, si badi, non è l’ipocrisia abituale della politica, poiché l’ipocrisia è comunque, come sempre si dice, un omaggio alla virtù. Ma proprio quel tipo di faccia.

Ecco, credo che la vicenda dell’aeroporto di Malpensa sia nel suo insieme una perfetta rappresentazione di quest’epoca, una specie di autocertificazione. Non solo le società evolute ma anche le società contadine sanno infatti quanto sia importante per una persona la reputazione, la “fama” di Virgilio. Sanno che è una risorsa preziosissima, più preziosa di tutte. Più della ricchezza, che poco può di fronte alla giustizia e al pubblico disprezzo. Più del potere che si scioglie per incanto, alzi la mano chi ricorda un solo sottosegretario dei tempi di Moro e di Peppino Impastato. La reputazione: risorsa che si conquista con una vita e che – proprio per la sua delicatezza estrema, quasi fosse di cristallo – può dissolversi in un attimo, bastano una bugia in pubblico, un furto in un duty free. E che ha come proprio fratello il prestigio.

Merce alla quale sembra ormai che tengano in pochi. Potrà apparire assurdo, ma lo dico. Se vi è una ragione per la quale la società mafiosa gareggia alla pari e spesso vince con quella legale, è esattamente questa: che se a noi del prestigio importa poco, ai mafiosi importa invece molto, moltissimo. L’uomo di mafia vuole essere alla fine soprattutto “uomo di prestigio”, per comandare senza violenza, senza “imporre”. Questa è “terra di prestigio”, spiegava quasi disperato un prefetto di Palermo al capo del governo, riconoscetelo anche a me – chiedeva – se volete che li combatta (intesi i mafiosi, appunto).

Insomma, le facce di bronzo conducono a sconfitte e vergogne. E quel che vale per gli uomini vale anche per le nazioni. Quando si pensa al Pil di un paese non bisogna mai dimenticare quali siano la considerazione, il credito morale che lo circondano. E l’Italia sotto questo profilo non sta affatto bene. Siamo (o no?) il paese che ha dato storicamente al mondo la parola mafia? È vero, abbiamo esportato a un certo punto anche l’antimafia. Un breve orgoglio. Perché la nostra secolare tara mentale, la prepotenza sulle leggi, il fastidio per la morale pubblica, riemergono in grande stile. Stiamo tornando “gli italiani”, che pensano di potersi infischiare della reputazione. Senza limiti. Come se ai suoi tempi Berlusconi non fosse stato sostituito per disperazione da Napolitano con Monti perché Sarkozy e la Merkel ne sorridevano acidi davanti al mondo. Come se la stessa Meloni in Europa non dovesse fare i conti con la reputazione del carrozzone neofascista che la segue come le salmerie, nonostante le posizioni che assume sull’Ucraina.

Anni fa il nostro ambasciatore in una grande capitale europea mi confessò una cosa che mi diede la misura del punto fino a cui eravamo precipitati: mi spiegò che quando andava a teatro evitava di parlare ad alta voce in italiano durante l’intervallo per non sentire qualcuno del pubblico urlargli beffardo “bunga bunga”. Non è un problema di ​ pregiudizi politici. È la fama del paese. Che oggi non per gratitudine verso Berlusconi (magari fosse questo!) ma per meschina competizione elettorale con il partito da lui fondato viene di nuovo umiliata e sfregiata. I nomi degli aeroporti e delle vie, le statue, tutte le forme che prende la memoria generano la fama. Giocarci sul piano internazionale vuol dire giocare contro la reputazione del proprio paese. Ci mancava anche questa. Ma è l’epoca delle facce di bronzo. Un giorno le studieranno. E allora non ci saranno né poltrone né soldi sufficienti ad aggiustarle.

Tratto da: ilfattoquotidiano.it

Foto © Davide de Bari

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