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granata rossella dipintoL’indifferenza (senza differenza) è la mancanza di manifestazioni di desiderio o il rifiuto di un qualsiasi coinvolgimento emotivo davanti a un oggetto o a una persona. Obiettivo finale è o dovrebbe essere il raggiungimento della tranquillità d'animo. A meno che non si sia indifferenti anche a questo.
Se dall’atteggiamento emotivo si passa a quello comportamentale, l’indifferenza si manifesta allorchè, nel momento di dover decidere tra due alternative, non se ne sceglie nessuna delle due, ritenendole entrambe non in grado di provocare qualche positivo cambiamento all’abituale status quo. In questo caso il sinonimo più vicino è quello del disinteresse, del distacco, del rifiuto, della mancata volontà di operare una scelta. Il voler non volere. I Siciliani usano un’espressione tipica: “Un mi nni futti nienti”, non interamente traducibile col “non me ne frega niente”, poiché il “futtirisinni” (fottersene) è più convincente, più esaustivo del “fregarsene”. Così come il “mandare a fare in culo” qualcuno o qualcosa non implica necessariamente conseguire una condizione di indifferenza nei suoi confronti.
Esiste anche la variante religiosa dell’indifferentismo, fieramente condannata dalla Chiesa, secondo la quale, come sostenuto da Gandhi, “tutte le religioni sono buone” e il buon credente di qualsiasi religione non ha bisogno d’altro che delle sue azioni per aspirare alla salvezza, diversamente dal dogma cattolico “Extra Ecclesiam nulla salus” (Fuori dalla Chiesa nessuna salvezza). Tipico esempio di come l’ortodossia e la presunzione della verità si sostituiscano alla tolleranza e al rispetto delle altrui scelte religiose o ideologiche.
C’è quindi un’indifferenza cognitiva, quella sostenuta dagli antichi scettici, in particolare da Pirrone, secondo cui, essendo la conoscenza “sensibile” e, in quanto tale, soggettiva, non esiste niente di cui si possa dire qualcosa di certo e qualsiasi giudizio è affidato alla sua possibilità di essere più o meno credibile. La polemica è fatta a Platone e alla sua teoria dell’Iperuranio come sede delle essenze reali, dei “prototipi” delle cose. Ma anche ad Aristotele e all’architrave dei principi logici, quello del terzo escluso, A=A o è diverso da A, tertium non datur. E invece tertium datur, così come, rispetto al bianco-nero, buono-cattivo, esiste né bianco né nero, né buono né cattivo. Lo strumento di professione del dubbio è “l’epochè”, la sospensione del giudizio, nel momento in cui non ci sono elementi né argomenti validi per esprimere un’opzione, per arrivare a una decisione o per negarla. La sospensione del giudizio comporta automaticamente la sospensione della parola, la afasia, poichè essa è il significante, il termine, al quale viene dato, arbitrariamente, o convenzionalmente, un significato, che comunque non esprimerà mai compiutamente il dato della sensazione.
L’indifferenza emotiva è invece legata all’assenza di qualsiasi rapporto di affettività, o di in-tenzionalità che il soggetto avverte verso un oggetto o una persona. In questo caso si indica il raggiungimento di una condizione di imperturbabilità, che gli Epicurei definiscono atarassia, ovvero il distacco da ogni relazione affettiva che possa causare un turbamento del proprio equilibrio interno. E’ breve il passo verso l’apatia, ovvero la mancanza di dolore, la libertà dalle passioni che quotidianamente sono legate alle nostre esperienze e che ci portano a legarci a un oggetto o a una persona e a sentirne la mancanza quando vengono meno. Meno nota, ma legata allo stesso principio è l'adiaforia, ovvero l'indifferenza nel preferire o meno qualsiasi cosa, nel bene o nel male. Gli scettici accettano anche, rispetto ai turbamenti che gli eventi dell’esistenza possono causare, la ''metriopatheia'', il moderato soffrire. E pertanto il saggio è colui che sa sollevarsi dalle umane debolezze e paure e non se ne lascia coinvolgere, ma riesce a conquistare il perfetto dominio sulle proprie emozioni, sola via per conseguire la felicità.
L’aspetto emotivo è strettamente legato a quello etico, quando il saggio sa dare la giusta risposta a una forza che proviene dal suo interno e gli indica la via del dovere (kathekon), che altro non è che il dettato della stessa ragione, avente come fine il bene, che si identifica con la vita stessa, con il “vivere secondo ragione”, cioè seguire il “logos”, la ragione particolare che è un frammento del Logos universale. Per Seneca il “taedium vitae” conduce l’uomo a uno stato di costante dolore, che comporta la perdita del contatto con sé stessi e da cui è necessario uscire per conseguire le caratteristiche del “De tranquillitate vitae”, ossia l’apatia..
Il Λόγος (logos) regola tutto e il vero sapiente sa mettere da parte il proprio punto di vista relativo per proiettarsi in una dimensione e in una visione cosmica, in un punto di vista assoluto, in cui le singole cose e le singole esistenze diventano indifferenti alla propria particolarità e si sciolgono e si amalgamano in un armonico rapporto con l’ordine universale. Spinoza, nel XVII secolo affiderà all’intuizione questa dimensione della vita “sub specie aeternitatis”.
Proprio in questo secolo tracce d’indifferenza, se non d’incredulità riaffiorano impetuose nel dubbio metodico cui Cartesio sottopone qualsiasi certezza fuori dall’unica vera certezza, il “cogito”, con una serie di successivi passaggi che conducono alla solita metafisica. Non c’è nè dubbio nè indifferenza nella scientificità del metodo galileiano se non nel suo costante rapporto di verifica con l’esperienza.
E andiamo ai moderni: dopo l’età dell’Illuminismo, con la sua fiducia nella conoscenza e nella scienza, ma anche con le sue certezze e le sue utopie, con le sue tolleranza e i suoi fanatismi rivoluzionari, con la sua aspirazione alla pace perpetua e le sue violenze, tra ateismo e teismo, troviamo, nell’alba del Romanticismo, spinte (Sollen) alla conoscenza del tutto, al di là della conoscenza di se stess,: “Per ritrovarsi nell’Infinito - si annulla il singolo volentieri, - ed allora ogni tedio si placa; - non più brucianti desideri né sfrenata volontà, - non più l’esigere molesto né il dovere rigoroso, - la rinuncia all’io è voluttà”. (Goethe) L’essere si identifica con il dovere essere e nella sua costante realizzazione, nell’idealismo tedesco (Fichte, Schelling, Hegel) e in tutti coloro nei quali è presente l’ideale romantico della conquista del sapere assoluto, dove la vita è vista come dialettica e movimento per conquistare tale condizione, o come rivoluzione, per saltare a Marx, per la realizzazione di una società nuova.
Questa dissolvenza nel tutto, questa abolizione della singolarità nella totalità dell’essere, che, secondo chi la teorizza, non può che essere positiva, produce come inevitabile risposta, a partire da Schopenhauer, la scelta della non-volontà, dell’indifferenza alle sollecitazioni con cui la “Volontà” l’oscura forza cosmica dell’universo, si serve di noi per realizzare i suoi oscuri disegni: non volere, non lasciarsi coinvolgere, non recitare orgogliosamente ruoli da burattini, lasciarsi avvolgere dall’indifferenza del Nirvana, unica via per salvarsi dal dolore dell’esistenza: “L’uomo che non è che fenomeno della volontà, cessa di volere, si guarda dall'attaccare il suo volere a qualsiasi cosa, cerca di conquistare in se stesso la massima indifferenza per ogni cosa".
Non meno drammatica l’indifferenza esistenzialistica, che già in Kierkegaard restringe la libertà a una scelta tra due opzioni, non decise dal singolo, (aut-aut),(con forte richiamo al principio aristotelico del terzo escluso), e a una conseguente condizione d’inutilità, alla precarietà, all'assurdità di una esistenza caratterizzata dalla ricerca senza risultati e senza punti fermi, quella del libertino Don Giovanni. Anche qua si incontrano forme di ascesi caratterizzate da religiosità non riscontrabili in Schopenhauer, giustificate addirittura per la loro mancanza di convincenti motivazioni, causa di scelte latrici di “scandalo”.
Si potrebbe continuare all’infinito, alla ricerca di termini che definiscono, sempre parzialmente, stati d’animo vicini all’indifferenza. Certamente non la noia, non quella di Schopenhauer, di Leopardi o, un secolo dopo, di Moravia: la noia, in siciliano detta “lagnusia” è una condizione causata dalla mancanza di stimoli o di interessi, il rifiuto del fare, non per propria scelta, ma per una degenerazione psicologica che comporta abbandono, inazione, stasi. “Il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare… tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente, la nostra sensualità è desiderio d’oblio, le schippettate e le coltellate nostre desiderio di morte, desiderio d’immobilità voluttuosa…” (Tomasi di Lampedusa: “Il Gattopardo”). Ben diversa dall’indifferenza, che è la conquista volontaria, intenzionale, progressiva, di uno stato d’animo caratterizzato dal distacco emotivo verso scelte, idee, settori della conoscenza, oggetti e soggetti che non riescono a stimolare interesse e convinzione. Il momento più alto di questa “condizione” è forse rappresentato dalla breve e famosa poesia di Montale:

“Spesso il male di vivere ho incontrato:

era il rivo strozzato che gorgoglia,

era l’incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato”.

Qua, rispetto al “male di vivere” si contrappone l’unico bene, ritenuto un prodigio, quello della “divina indifferenza,”, l’impassibilità e il superiore distacco, quello la statua nel sonnolento meriggio, della nuvola sospesa nel vuoto, del falco librato nell’aria, nella sua irraggiungibile prospettiva d’infinito, sciolto da qualsiasi briciola di gradimento, da qualsiasi sorriso liberatorio. Quasi d’obbligo il paragone con l’hegeliana “nottola di Minerva che esce al crepuscolo” ossia con la filosofia, alla quale è dato un ruolo non di stimolo dialettico, ma di finale lettura di ciò che è stato, spiegazione, in realtà interpretazione. Il distacco del saggio non può comunque mai essere completo, poiché la “chiave di lettura” è sempre determinata da logiche di partenza che spesso precondizionano la selezione e la lettura degli eventi e perché si pone al di là della dialettica rischiando di provocarne la fine. Così come il comunismo comporta la fine del materialismo dialettico in una sorta di paradiso comune in cui ogni tensione sociale si scioglie e si staticizza.
Rispetto alla montaliana immobilità come compiuta realizzazione dell’essenza umana, dove il nulla occupa la dimensione dello spazio e sembra essere l’unico possibile cielo, la dimensione cognitiva si circonda di un fossato che rende inaccessibile qualsiasi spazio, c’è per contro, il rimbalzo etico inteso come dovere e impegno nella realizzazione di un cambiamento positivo che superi le disfunzioni dell’attuale stato dell’essere. Il breve pamphlet contro gli indifferenti scritto da Gramsci nel 1917 è forse il documento più alto di questa nobile missione che invita ad essere partigiani, a schierarsi, a militare dietro una bandiera o costruirsela: “Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti".
Sembra, secoli dopo, sentire riecheggiare la dantesca condanna degli ignavi, coloro che non hanno mai agito, non hanno mai fatto scelte proprie né espresso proprie idee, ma si sono allineati dietro all’uomo forte, lasciandosi trainare. A costoro Dante non da neanche un posto all’Inferno, poiché, non essendosi mai schierati, non possono appartenere a uno schieramento, fosse anche quello dei cattivi, ma li sistema nell’antinferno, condannati per l’eternità a vagare nudi correndo dietro a un’insegna che corre velocissima, girando su se stessa, punti da mosconi e vespe, che procurano perdite di sangue, misto alle lacrime e succhiato da vermi. La pena del contrappasso scatta implacabile per coloro che “mai non fur vivi”, che si sono sottratti alla scelta tra bene e male e al dovere civico di dare un contributo alla comunità di cui hanno fatto parte. E quindi qualsiasi tentativo di non lasciarsi coinvolgere, di sfuggire alla scelta o allo schieramento, alla fede sotto una bandiera, all’Aut-Aut, (tipo, negli anni 70 lo slogan dei partiti, “o con lo stato o con le brigate rosse”): approda all’indifferenza del Don Giovanni che non vuole amare nessuna donna perché non vuole sentirsi legato, vuole vivere l’attimo, vuole lasciarsi sedurre solo dall’indifferenza estetica: unico riscontro possibile la noia.
Per contro si passa all’altro estremo, “nec - nec”, tipo quello di Lotta Continua, verso cui ci ritrovammo rigettati dopo la morte di Peppino Impastato, e che ci parve l’unica scelta possibile, “né con lo Stato né con le Brigate rosse”. Cioè scegliere di sottrarsi alla scelta, non scegliere. C’è qualche sospetto richiamo alla dottrina del libero arbitrio, per rispettare il quale Dio sceglie di non intervenire nella volontà dell’uomo, rimanendo avvolto nella nube della sua “divina indifferenza”.
Tutto questo sembrerebbe possibile se si usasse il pieno e totale parametro della razionalità e della sua capacità di determinare il distacco emotivo, ma poiché anche l’orientamento della scelta non può prescindere dalla sotterranea motivazione che l’ha causato, si può concludere che l’indifferenza non esiste, che c’è sempre una motivazione per qualsiasi scelta, e che il tentativo di sottrarsi alla scelta è già un modo di scegliere. Espresso con le parole di Pavese: “Quando si soffre si crede che al di là del cerchio esiste la felicità, quando non si soffre si sa che questa non esiste, e si soffre allora di soffrire perché non si soffre nulla”.
«La volontà si distoglie ormai dalla vita. L'uomo arriva allo stadio della volontaria rinuncia, della rassegnazione, della vera calma, della completa soppressione del volere. La sua volontà muta direzione, non afferma più la propria essenza rispecchiandosi nel fenomeno, ma la rinnega. Il processo, con cui ciò si manifesta, è il passaggio dalla virtù all'ascesi. A quell'uomo non basta più amare altri come se stesso e fare per loro quello che fa per sé, ma nasce in lui l'orrore per l'essere di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nucleo e l'essenza di quel mondo da lui riconosciuto pieno di dolore. Egli rinnega appunto quest'essenza, che si manifesta in lui e si esprime mediante il suo corpo; il suo agire smentisce ora il suo fenomeno ed entra con esso in aperto conflitto. Egli, che non è se non fenomeno della volontà, cessa di volere, si guarda dall'attaccare il suo volere a qualsiasi cosa, cerca di conquistare in se stesso la massima indifferenza per ogni cosa».

In foto: dipinto di Rossella Granata

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