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Speciale Seregnopoli/Parte prima. Gli antefatti: origini e retaggio dell'ex sindaco Mariani, tra night club e “relazioni pericolose”. Frequentazioni e ambienti di una malapolitica alle prese con la gestione del bene pubblico. Il “sistema Seregno”: studiato per favorire business imprenditoriali. Lugarà, dalla faida dell’89 ai rapporti con gli “Africesi”: al bar della ‘Ndrangheta Mazza sminuiva le contiguità.

"Massima soddisfazione, felicità totale. Un grazie a tutti gli alleati, a tutti i candidati, a tutti i nostri elettori. Siamo felicissimi, non vediamo l’ora di cominciare a lavorare… Dopodomani andrò insieme a Giacinto Mariani (in foto) in ufficio a pensare a come lavorare nel migliore dei modi per tutta la nostra città". Queste le dichiarazioni che il neoeletto sindaco di Seregno Edoardo Mazza, forzista, rilascia a caldo il 14 giugno 2015 all’esito di un ballottaggio che lo ha appena visto trionfare col 53,65% dei voti sull’avversario William Viganò, di area Pd. Una campagna elettorale intensa, portata avanti per un mese e mezzo, e senza esclusione di colpi, fra le due principali forze politiche. Ad appoggiarne la lista, oltre al suo partito, anche Lega Nord e le due liste civiche “Amare Seregno” e “La nuova Seregno”. E così, dopo l’incarico di assessore all’Urbanistica e all’Edilizia privata nella precedente amministrazione Mariani (2010-2015), a Mazza si schiude finalmente l’ingresso ai ‘piani alti’ di via Umberto I.

Classe 1977, laureato in legge nel 2002, dopo un periodo di praticantato presso lo studio di un noto avvocato seregnese, nel 2007 viene abilitato all’esercizio della professione forense. L’anno dopo apre uno studio legale tutto suo, in via Leonardo da Vinci. Una carriera, quella di avvocato civilista della ‘Seregno bene’, cui Mazza affianca fin da subito un’intensa attività nell’ambito delle istituzioni comunali. La sua immagine di politico ambizioso e dalla ‘faccia pulita’ non tarda a raggiungere spiccati livelli di popolarità negli ambienti delle nuove leve dei moderati di destra. Nel 2005 è eletto consigliere comunale nelle file di Forza Italia. Cinque anni dopo, la nomina all’Urbanistica. È quello un periodo di grande fermento per il business dell’edilizia: si accavallano in Comune le pratiche per licenze e permessi, si fa a gara per ridimensionare i vincoli imposti dai Plis (Parchi locali di interesse sovracomunale), si propone di trasformare i piani regolatori in collage di commi, clausole, appendici tecniche, eccezioni delle eccezioni per strizzare l’occhio a questo o quel costruttore ben provvisto di capitali e, quindi, presumibilmente facile alla mazzetta.

È il marcio della politica che avanza. Di una politica corrotta e ingorda di potere che tutto arraffa e si porta via. E i risultati non tardano a vedersi. È aprile 2010 quando il 64% dei seregnesi chiamati a eleggere il nuovo sindaco premiano per la seconda volta di fila Giacinto Mariani, il “re” della Lega in Brianza. Personaggio più che controverso: da fondatore e gestore del night club “Lily la tigresse” in corso Buenos Aires, decide negli anni ’90 di riciclarsi in politica. Tentazioni di berlusconismo velleitario a parte, la politica non è per lui che una forma di investimento come tante. Nel 2003 abbandona proprietà e strip-tease milanesi per dedicarsi appieno alla “sua” città. Leader indiscusso della sezione locale del Carroccio, importa inevitabilmente lo stesso modus operandi di organizzatore di addii al celibato e tour in limousine nella gestione della cosa pubblica.

Riprova ne sono - in barba ai più peregrini scrupoli di conflitto d’interessi - le incresciose vicende legate ai giri d’affari nel settore immobiliare ed ai rapporti intercorsi (siamo ad aprile 2013) insieme al capitano dei Carabinieri Luigi Spenga, suo parente, con la +Energy Srl in qualità di socio occulto. E non di una società qualsiasi: della compagine fa parte - oltre alla fiduciaria che fa da schermo a Mariani e Spenga - l’allora vicepresidente di Confindustria di Monza Mario Barzaghi, che con la +Energy diventa partner d’affari della Simec Srl, impresa del fotovoltaico. Una società che - stando alle rivelazioni de L’Espresso - avrebbe goduto di un’entratura del clan dei Casalesi, tanto da esser stata sequestrata nell’ottobre 2012 dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per infiltrazione camorristica - tutto ciò, ovviamente, “all’insaputa di Mariani”.

Ma il salto di qualità (per intelligenza criminale) è la questione dei rapporti societari con i gestori di due locali di tendenza della Brianza: la discoteca “Molto Club” e il ristorante “Mucho Mas”. Alcuni di questi soci, infatti, risultano titolari anche di un altro locale, il “Noir” di Lissone: proprio quel “Noir” dove gli ‘ndranghetisti originari di San Luca - come accertato dall’inchiesta Infinito - erano soliti riunirsi per trascorrere le loro serate gozzovigliando a sbafo. Non v’è ragione di dare per scontati collegamenti la cui attendibilità non supera la soglia del probabile. Ma indubbia è la contiguità di quello che l’opinione pubblica negli anni 2010-2015 considerava il “fior fiore” della classe politica in seno alle amministrazioni locali con personaggi assai poco raccomandabili.

Perché, prima ancora delle responsabilità penali, sono le “scelte di campo” (frequentare questo piuttosto che quell’ambiente) a fare la differenza, a porre le basi per un’eventuale sanzionabilità sociale, quando non etica, dei soggetti che le attuano. A maggior ragione quando questi siano titolari di funzioni pubbliche. E, nel caso delle giunte di quegli anni, il malcelato compromesso morale dei vertici politici e amministrativi con il gotha delle speculazioni edilizie era pressoché all’ordine del giorno. Era nell’aria. E coinvolgeva i partiti, le correnti all’interno degli stessi, dirigenti e funzionari comunali, imprenditori e - naturalmente - le organizzazioni criminali.

Uno spaccato che, oltre a riflettere uno specifico quanto degenerato modo d’essere delle relazioni di potere a livello locale, si ritrova curiosamente in occasione di un evento chiave per la campagna elettorale di Mazza: il famoso rinfresco organizzato il 25 maggio 2015 - sei giorni prima del voto - in un bar (su cui avremo qualcosa da ridire) di fronte a piazza Vittorio Veneto. Il momento non potrebbe essere più simbolico: seduti attorno a un tavolo ci sono il candidato sindaco, il vicepresidente della Regione e assessore alla Sanità Mario Mantovani (FI), i candidati consiglieri per Forza Italia Ingrid Albano e Stefano Gatti, nonché il costruttore calabrese Antonino Lugarà, originario di Melito Porto Salvo (Reggio Calabria).

Classe ’53, un passato nella Dc, Lugarà è l’uomo che i pm di Seregnopoli definiranno come il trait d’union tra il potere politico-istituzionale e la ‘ndrangheta. È a lui che risulta riconducibile la società G.A.M.M. Srl, amministrata di diritto dalla moglie Giuseppina Linati, titolare dell’82,5% delle quote (la restante parte è posseduta dalla figlia Annalisa). Nel 2008 la G.A.M.M. acquistava un immobile produttivo dismesso nell’area ex Dell’Orto di via Valassina. Guarda caso, proprio due mesi prima di quel rinfresco (per l’esattezza il 17 marzo) Lugarà presentava in Giunta - per il tramite della moglie legale rappresentante - una pratica amministrativa per la realizzazione di un Piano attuativo di riconversione dell’area in un centro commerciale. E in che modo conta di farlo? Cambiando la destinazione d’uso dell’immobile stesso in virtù di una norma di favore inserita nel Piano delle regole. Questa, almeno, è l’ipotesi dell’accusa sulla presunta corruzione urbanistica che avrebbe visto il candidato sindaco Mazza beneficiare dei voti procuratigli da Lugarà in cambio dell’accelerazione dell’iter della sua pratica. E un evento di quella portata, a pochi giorni dalla chiamata alle urne, è sufficiente a testimoniare un rapporto di reciproco interesse fra i due.

L’aperitivo, per giunta, si tiene nel bar “Tripodi pane & caffè”, di cui è titolare Antonino Tripodi, arrestato nell’ambito dell’inchiesta Infinito e condannato in via definitiva il 1° maggio di quell’anno per detenzione abusiva di armi. Ma neanche questo sembra turbare la “calma olimpica” (o l’ostentata connivenza?) del candidato sindaco: "Vengo spesso qui a prendere il caffè, è proprio dietro il mio studio legale. So che Tripodi è stato coinvolto nell’indagine Infinito ma non mi crea nessun problema politico sapere che nel suo locale è stato organizzato un rinfresco". Esempio tipico di convergenza consapevole del comportamento del politico con gli interessi delle organizzazioni criminali. Basterebbe questa frase per farsi un’idea di quale immagine del potere l’amministrazione Mazza - ma, più in generale, quello che è balzato alle cronache come il “sistema Seregno” - avrebbe dato alle mafie insediate sul territorio. Sarà la prefettura nel gennaio 2016 a ordinare al Comune la revoca della licenza nei confronti del bar per "ericolo di infiltrazione mafiosa".

Gli stessi presenti in quell’occasione sono del tutto ignari della bufera che di lì a un paio d’anni si sarebbe abbattuta su di loro, nonché sull’intera Giunta. Molti ignorano perfino chi sia davvero Lugarà, quale sia la sua rete di conoscenze. Ignorano la vicenda singolare dell’agguato di cui fu vittima nel 1989, quando rimase coinvolto insieme ai fratelli Annunziato e Salvatore (e, si dice, anche gambizzato) in una sparatoria avvenuta nel corso di una faida tra le ‘ndrine Flachi-Trovato-Batti per l’aggiudicazione di alcuni appalti. "Conosco Lugarà, ma non so niente del suo passato" si limita a rispondere Mazza quel giorno alle domande del Fatto Quotidiano.

Ma le conoscenze del costruttore calabrese si estendono fino alla locale di ‘Ndrangheta di Mariano Comense: referente di Lugarà è qui il cugino Carmelo Mallimaci, una condanna per tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso, considerato vicino a Giuseppe Morabito, nipote del boss U tiradritto, Domenico Staiti e Rocco Depretis: tutti e tre condannati per associazione mafiosa in relazione ai disordini di Cantù. Le intercettazioni parlano chiaro: con la gente di quel sistema criminale Lugarà c’era invischiato fino al collo. Il suo nome compare nelle intercettazioni ambientali relative alla controversia per un quadro che gli viene dato in pegno nel febbraio 2013, insieme alla promessa di un pagamento di 80mila euro ad estinzione del debito. In cambio, ovviamente, la restituzione del quadro. A fine novembre 2015, però, Lugarà viene invitato a casa del debitore. Con quest'ultimo si presenta Cosimo Tulli, già arrestato nel 2007 in un’operazione contro le ‘ndrine Morabito-Palamara-Bruzzaniti. Lo scopo: intimidire il creditore e rivendicare il quadro senza aver prima saldato il debito. Lugarà non ci pensa due volte: chiede al cugino Mallimaci di scomodare "quelli di Mariano". La risposta di Giuseppe Pascià Morabito non si fa attendere: "Digli [a Tulli, ndr] che ce l’hanno gli altri Africesi… digli se vogliono di venire a prenderlo". Segno di come il ricorso alla violenza fosse la prassi di quel gruppo, che tra i suoi “servizi” annoverava anche il recupero crediti. "Lo hanno ammazzato di bastonate" racconterà Lugarà alla moglie. Anche in seguito al furto avvenuto in casa della figlia Annalisa il giorno di Natale 2015, Lugarà si rivolge a Morabito incaricandolo di scoprire l’identità dei ladri. La refurtiva verrà rinvenuta da un passante lungo una pista ciclabile.

Episodi questi che non possono non leggersi nel quadro degli altri capi d’imputazione del processo a carico di Lugarà: dalla corruzione nei confronti del dirigente deceduto Calogero Grisafi, al concorso in rivelazione di segreto d’ufficio col funzionario della procura Giuseppe Carello, all’usura in concorso con Massimo Ponzoni a danno dell’imprenditore Luciano Mega (parte lesa nel processo). Tutte ipotesi di reati spia di un metodo che, a prescindere dalla sua effettiva rilevanza penale, reca inevitabilmente con sé la mafiosità tipica dell’atteggiamento e della mentalità che vi sottendono.

Continua

Tratto da: wordnews.it

Foto © Imagoeconomica

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