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La crisi di leadership come crisi di società

“Un leader è un commerciante di speranza”
(Napoleone Bonaparte - Correspondances)

Il secolo scorso, prima di innescare la più grave slavina economica della storia, attese pazientemente fino al 1929. Poi arrivò il martedì nero e la Grande Depressione.
Quel Big Crash in cui, ironizzava cinicamente Pelham Wodehouse, passando da Wall Street bisognava schivare i corpi dei banchieri che si gettavano dalle finestre.
Nel 21° secolo, che s’annuncia brevissimo, ci siamo portati avanti col lavoro e già all’alba degli anni venti possiamo annoverare una catastrofe, sanitaria ed economica, potenzialmente senza precedenti dai tempi del secondo conflitto mondiale.
Corsi e ricorsi, direbbe un mio amico napoletano, ma con una sostanziale differenza.
Dopo il '29, il mondo occidentale, l’unico che all’epoca realmente contasse, seppe tirar fuori dal cilindro Roosevelt e il New Deal. E in seguito Churchill, De Gaulle, De Gasperi, Adenauer. Capaci di rimediare ai disastri dei predecessori. Si trattasse di incapaci benintenzionati come Chamberlain o sanguinari megalomani come Hitler e Mussolini.
Financo uno Stalin, esecutore testamentario più che realizzatore del sogno comunista, ebbe comunque il merito di tenere in piedi un giovane edificio, che minacciava di crollare sotto i calci degli stivali nazisti.
Ben diversa appare oggi la situazione, per qualità di leadership e suo costante degradarsi nel tempo.
Basta guardarsi intorno.
Il militare che porta legata al polso la famigerata valigetta nera, contenente i codici del più grande arsenale nucleare del pianeta, cammina due passi indietro a un tizio con una bizzarra capigliatura bananiforme, color stoppa, che nel dramma del Covid ha consigliato ai propri concittadini beveraggi di candeggina a scopo profilattico. Con l’unico risultato di intasare i centri antiveleni.
Motivo in più per seguire con ansia le presidenziali americane, nella speranza che gli elettori a stelle e strisce eleggano stavolta, se non un genio, quantomeno un normodotato.
Il quadro non migliora se buttiamo l’occhio sulla povera Europa.
La Gran Bretagna, non contenta di annaspare nel pantano della Brexit, affida i suoi destini a un altro biondastro dai neuroni scompagnati, che invece di predisporre il lockdown ha suggerito agli inglesi di prepararsi a perdere i propri cari. Salvo fare precipitosa marcia indietro, quando ha rischiato, causa contagio, di essere lui a dover interpretare il ruolo del caro estinto.
Il povero Boris ispira così tanta fiducia che persino i suoi colleghi di partito lo chiamano, neanche troppo segretamente, the walking stuffed turkey, il tacchino ripieno che cammina. Con l’implicita convinzione che, come tanti altri gallinacei, il suo orizzonte temporale non oltrepassi il Natale.
Il tutto mentre il partito Laburista risulta non pervenuto. L’opposizione al nasty party conservatore, in Great Britain, la fanno solo i tipi come Marcus Rutheford, attaccante dello United, che ha deciso di offrire pasti caldi ai bambini poveri, per tutto il tempo in cui le mense scolastiche resteranno chiuse.
Attraversando la Manica le cose, se possibile, peggiorano. Emmanuel Macron ha finora dimostrato notevole incoerenza in tutto, fuorché negli affetti, stante l’incrollabile rapporto con Brigitte, dai banchi del liceo di Amiens fino a una futura ipertrofia prostatica.
Monsieur le président è quello che, con la Lombardia già devastata dai contagi, passeggia per l’Avenue des Champs-Élysées, invitando i parigini a fare altrettanto e godersi la Ville Lumiere.
Oltre a ciò, si conferma in ogni occasione gaffeur di fama mondiale, come quella volta che, nel presentare al Papa il proprio ministro degli esteri Jean Yves Le Drian, nativo di Lorient, spiegò che i bretoni sono la mafia francese. Ma, aggiunse subito dopo, una mafia con una morale, che fa del bene.
Con gran gioia, è il caso di presumere, degli operosi abitanti della Bretagna. Bene, ma non benissimo, insomma.
Qui da noi c’è qualche ingenuotto che ancora lo paragona a Matteo Renzi, dimenticando che, a differenza del sostanziale vuoto ideologico di En Marche, il renzismo nostrano ha una sua ben precisa ideologia, ovvero il renzismo stesso.
Jean Cocteau diceva che il francese è un italiano di cattivo umore. In questo senso, il caro Emmanuel è più la versione d’oltralpe, solo un tantino meno prudente, di Giuseppe Conte.
Un sughero che tenta di galleggiare in ogni possibile acqua e potrebbe indifferentemente presiedere il Direttorio della Rivoluzione come il parlamento di Vichy, passando per l’Associazione Bocciofila di Faenza.
E, il che è ancora peggio, con identici risultati.
La Germania invece, almeno per il momento, sembra essere il paese che ha gestito meglio la pandemia, con soli (si fa per dire) diecimila morti, contro i trentasette mila italiani, pur avendo venti milioni di abitanti in più.
Quanto questo, però, sia merito dell’eterna signora Merckel, piuttosto che di una burocrazia più efficiente e di maggiori mezzi economici (28mila posti di terapia intensiva, a fronte dei nostri 4mila) è tutto da dimostrare.
Certo, quand’anche dipendesse solo dai mezzi disponibili, il non aver fatto danno sarebbe per das Mädchen Angela (la ragazzina, soprannome appiccicatole da Helmut Kohl) quasi una medaglia al valore. Ma, al netto dei tedeschi che la reputano quasi insostituibile, l’austerity che grava sui bilanci di tutta Europa, non può non essere inclusa nel giudizio politico.
Angelona non è né Bismarck, né Willy Brandt. Ha solo la non trascurabile fortuna di pilotare una macchina ben oleata per antica tradizione, in un paese arricchitosi per l’indubbia capacità del popolo tedesco, ma anche e soprattutto a spese del resto dell’Unione.
Il buon gusto imporrebbe infine di sorvolare sulla vasta panoplia di microsovranismi che infesta il continente. Autentica animal farm in cui, tra un grugnito ungherese e un rutte olandese, si esprime identica mancanza di lungimiranza, quanto sovrabbondanza di profano egoismo. Per tacere delle dissennate scelte svedesi (a oggi 5° paese per decessi rispetto alla popolazione) e della mirabolante pietas svizzera, che negherà la terapia intensiva agli ultrasettantacinquenni.
Altrettando superfluo rivangare la stocastica casistica delle incompetenze di casa nostra. I DPCM a puntate, i banchi semoventi, i decreti attuativi immobili, i millemila ritardi di un paese in cui mancano le mascherine, ma le regaliamo alla Cina e ci scopriamo, dopo decenni di tagli lineari, nudi e inermi di fronte all’emergenza.
Una classe politica sorda non solo ai dettati costituzionali, ma anche a quelli delle elementari, a giudicare dagli stupri perpetrati ai danni di grammatica e sintassi, in ogni pubblica dichiarazione. Che negli anni ha annoverato statisti del calibro di Antonio Razzi, Maria Stella Gelmini (come dimenticare il mitico tunnel neutrinico tra la Svizzera e il Gran Sasso?) Valeria Fedeli (io non sono attaccata alla sua propria sedia) Domenico Scilipoti, Danilo Toninelli (un ponte dove la gente possa mangiare, giocare, incontrarsi) Luigi Di Maio (qui l’aneddotica è così sterminata che richiederebbe un trattato a parte).
Personaggi da commedia di nessuna arte, ma nel complesso quasi innocui, se paragonati ai Berlusconi, ai Dell’Utri, ai Salvini. Gente che sarebbe giù imbarazzante avere come portinai del palazzo, figuriamoci come ministri o presidenti di regione.
Eh già, se Atene piange, Sparta singhiozza e spostandosi a livello locale ci imbattiamo nel mitico duo Fontana-Gallera o in un Luca Zaia, che avendo fatto due anni due, di veterinaria, sostiene di capirne di virus.
La crisi di leadership è insomma un problema diffuso, ingenerato dal progressivo peggioramento della società.
Non che i cretini siano aumentati, intendiamoci. Di minus habens ce ne sono stati in ogni epoca.
Solo che adesso sono tronfi, saccenti, autorevoli. Riportando alla mente le parole di Leonardo Sciascia: ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genuini, integrali, come il pane di casa.
Niente di più vero. Il cretino attuale ha negli occhi un lucore di inane furbizia, segno che pensa di essere meglio, di aver capito più di ogni altro. È anche, sempre più spesso, diplomato o laureato, avendo acquisito una qualche settoriale microcompetenza, che sta alla vera cultura come le mense aziendali alla nouvelle cuisine.
L’attuale leadership non è nient’altro che l’espressione di una società forzosamente istruita, male, al di sopra del proprio livello intellettivo e di curiosità intellettuale. Ingozzata di nozionismo come i polli d’allevamento e perciò incapace di volare oltre gli angusti confini del proprio immediato ed immanente interesse. Che arrivata al potere, non sa ben distinguere tra il Cile e il Venezuela, tra antivirali e candeggina, chiudendo i teatri e lasciando aperte le chiese.
Si è volutamente commesso l’errore di trasferire il concetto di uguaglianza dalla politica, in cui doveva rappresentare pari dignità e non massificata omologazione, alla cultura.
Uno vale uno quando si vota, non quando si pensa. Il valore del voto è sancito dalla Costituzione, quello di un pensiero solo dalla qualità del pensiero stesso e della conoscenza che c’è dietro.
Bisognerebbe ripartire proprio da lui, dal pensiero. Da quella filosofia da troppo tempo ridottasi a rimasticatura di sé stessa.
In un villaggio che assomiglia sempre più una sterminata periferia globale, l’Occidente dovrebbe puntare sulla ricerca, sul know how, sulla cultura derivante dalla sua immensa storia.
Un processo lento, lungo e faticoso che farebbe finalmente avverare uno dei miei più sfrenati desideri. Ovvero essere governato da qualcuno migliore di me.
Il che, considerato che non sono né Churchill, né Stalin, non dovrebbe poi essere così difficile.

Foto © Imagoeconomica

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