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da libera.it
Luigi Ciotti. "Come Pino Puglisi: un martire in un mondo ingiusto, tocca a noi reagire all'emorragia di umanità"

Il 15 settembre, giorno in cui ventisette anni fa - simbolica coincidenza - venne ucciso a Palermo don Pino Puglisi, oggi beato. La parola «martire» deriva da un verbo greco che significa testimoniare. Testimonianza figlia di una fede così profonda da non indietreggiare neanche di fronte al rischio di perdere la vita. Martiri sono le persone che per non perdere sé stesse, la propria integrità morale, i valori che guidano la loro esistenza, non temono di mettersi in gioco.

Don Roberto era una di queste. Lui viveva nelle relazioni e per le relazioni. Credeva nel «noi», non nell’io. Ma le relazioni vere non sono mai protette e possono esporci al rischio dell’imprevisto, del malinteso e anche, come nel caso di Roberto, del gesto inconsulto e omicida. Resta il fatto che don Roberto è morto ma continua a vivere in tutti quelli che ha sorretto, coperto, nutrito.

Era uno che viveva il Vangelo nel solo modo in cui il Vangelo chiede di essere vissuto: radicalmente. Di fronte a un omicidio c’è una responsabilità penale da rilevare e accertare. Dopodiché è innegabile che ci sia un clima che concorre alla violenza. Parole e gesti che attestano una perdita, anzi un’emorragia di umanità. Non se ne esce senza una rieducazione alla riflessione, al silenzio, all’ascolto della propria coscienza. Senza un liberarsi da quelle maschere che invece di proteggerci dal virus della violenza lo alimentano. Riflessione e silenzio a cui omicidi come quello di don Roberto ci richiamano con forza. Nulla più della morte di una persona innocente, generosa e buona può scuoterci l’anima, farci vedere che quella dell’egoismo non è vita ma sopravvivenza, agonia della mente e del cuore. Non ci sono «preti di strada»: ci sono preti che vivono radicalmente il Vangelo, che esorta a andare incontro ai poveri, ai fragili, ai discriminati per ridare loro speranza e dignità. Vangelo significa strada.

Non a caso la prima immagine che usò Papa Francesco - un Papa che non solo predica ma vive il Vangelo - è stata quella di «Chiesa in uscita». Dopodiché la strada è molto diversa da quella di quarant’anni fa perché nel frattempo le disuguaglianze e le ingiustizie sono cresciute fino a toccare livelli mai visti nella storia. La povertà diffusa e l’immigrazione di massa forzata - forzata dalle guerre e dal colonialismo economico - sono scandali del nostro tempo. C’è una parte di Chiesa che fa già molto, con grande impegno e generosità, in molte aree d’Italia e non solo. Ma il nostro impegno non può limitarsi all’accoglienza, se vuole smuovere le cose e contribuire a un nuovo umanesimo e a un’ecologia integrale. Dobbiamo impegnarci anche a livello pedagogico e, in senso lato, «politico», politica intesa come servizio al bene comune. È quello che appunto sta cercando di fare il Papa: costruire una Chiesa capace di formare coscienze inquiete e denunciare le radici politico-economiche della povertà e della perdita di dignità. Una Chiesa in cammino, povera per i poveri, veicolo di umanità, di condivisione e di giustizia.

Tratto da: libera.it

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