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di Luciano Armeli Iapichino
Ho paura del buio! Non di quello che s’irradia al calar del Sole, né di quello che domina in assenza di luce artificiale. Il buio che destabilizza la mia serenità è quello che si annida nella società di questo Paese, anestetizzata dalla mediocrità e lobotomizzata nella pulsione alla qualità: la qualità del pensiero, della professione, dell’essere.

Dal secondo dopoguerra, sulla spinta neorealista, e sino agli anni Ottanta, la dialettica culturale e lo scontro ideologico erano pur segno di una vitalità stimolante la crescita, di una sana irrequietezza intellettuale, di un fertile humus in cui coltivare l’intransigente difesa della posizione, della categoria, di classe.

L’occupazione universitaria, le tavole rotonde, le tribune elettorali, i cenacoli, il confronto, la provocazione, i libri, gli editoriali, la musica, i testi musicali, erano gli spazi e gli strumenti del dissenso da un lato, della difesa a oltranza del sistema dall’altro; costituivano, a ogni modo, le voci del vocabolario di una cultura variegata e non omologante, della corsa agli armamenti culturali che servivano a puntellare un pensiero ben definito, distintivo, tesserato, rivoluzionario o conservatore; marchiavano le stimmate dell’appartenenza. Nel bene e nel male. A volte anche in esternazioni estreme. Forgiavano un’identità accertabile a prima vista: nel taglio dei capelli, nel modo di vestire, nel sussurrare una canzone, nell’argomentare l’attualità.

L’omologazione paventata da Pasolini era lo spettro, il demone, l’Anticristo contro cui sfoderare la croce del pensiero, il rituale dell’approfondimento, il salmo della diversità, l’acquasantiera dell’appartenenza, l’arma dello studio e l’urlo del sacrificio.

Oggi.

L’orizzonte omologante, concretizzatosi già da tempo e impaludante ogni forma di qualità, è stato sostituito da un nuovo habitat sociale: quello di un deserto di acefali fermi allo stato brado dell’ultimo titolo di studio conseguito ai tempi di Noè che, cloroformizzati da un’arroganza di posizione professionale, accecati nella consapevolezza dei propri limiti e insensibili all’imbarazzo, orbi dell’accelerazione del mondo, sono ai comandi di una zattera sociale che naviga a ritroso. Che significa guidare la società verso i baratri che si aprono dietro le spalle. Si va all’indietro. Nella migliore delle ipotesi si resta impantanati nel presente che è già passato, un oggi che è vecchio, inetto, inutile, misero e fastidioso in cui l’applicazione di competenze logore e inservibili si traduce in un modo di fare e di pensare tipico di chi arranca, di chi trasborda nella confusione e nell’incapacità, corazzate da atteggiamenti di macelleria sociale.

armeli iapichino luciano bw 610 2I supereroi senza poteri hanno colonizzato la società: questi fenomeni che hanno accompagnato da decenni il feretro del libro e della propria crescita intellettuale, visibili in ogni anfratto sociale e professionale, sono assurti ad accademici dell’attualità, cultori settoriali, eruditi della miseria di spirito. La società in bianco e nero e più adrenalinica degli anni Settanta, che aveva le sue propaggini in settori di nicchia abbastanza ampi, si è ridotta oggi a giungla di automi in carne e ossa inutilizzabili che hanno spazzato financo quegli spazi privilegiati di intellettualità e confronto culturale ridotti a iceberg moribondi prossimi allo scioglimento.

E se l’analisi può apparire spietata, la soluzione agonizza in una condizione ancora peggiore: non c’è. Il decadimento, registrato dai sismografi dello spirito già da tempo, è inarrestabile perché la carica esplosiva dell’interesse, dello stimolo, della dialettica di classe, della coscienza, è stato seppellito sotto una coltre smisurata di nulla. La consapevolezza dell’essere vuoti, scarsi, inetti, trainati e non trainanti, che pure c’è, soccombe dinanzi a una invisibile inerzia che immobilizza e un comune senso del pudore urinato quotidianamente.

Dinanzi al proprio fallimento umano o professionale non ci si vergogna più. La difesa è affidata al meccanismo psicologico della proiezione: è colpa di …, l’altro è peggio …, che me ne fotte …, se la fottono gli altri …

È buio fitto. La società è trasversalmente adagiata su posizioni di scaricabarile, di inettitudine, di vuoto cosmico e, cosa ancor più grave, ha una percezione della realtà distorta e non puntellata da un corretto senso critico inaridito da trascuratezza culturale decennale.

Se si ascoltano le notizie di cronaca (correttamente filtrate), al netto della cronaca resta uno schiaffo. Sì uno schiaffo all’intelligenza, alla mortificazione della dignità; l’assuefazione è riuscita a trasformare il nulla in notizia, il decadimento in trionfo, il crimine in normalità, la colpa in opportunità, la furberia in promozione. Ma attenzione: se la società ha preferito inebriarsi di aria putrefatta e con essa e di scarsa qualità della vita anche i polmoni, l’inquinamento ricade su tutti, oggi, come nel domani. I pesi morti affossano tutti. Spengono l’ottimismo, la voglia del fare, la poiesis erodotea che ha sempre innescato il progresso sociale del passato.

Un tempo il linguaggio si componeva di termini quali proletariato, sottoproletariato, borghese, antiborghese, conformista, anticonformista, comunista, socialista, omologazione, fascista

Oggi, a parte quest’ultima categoria che sopravvive nell’intima nostalgia di tanti e alle glaciazioni della dignità umana come virus certificante da un lato l’analfabetismo imperante, dall’altro la definitiva scarnificazione della memoria, è sconcertante registrare il misero traguardo che l’esercito degli irrilevanti si è prefissato come optimum per la propria esistenza. Traguardi professionali ed esistenziali attigui alla soglia del niente, edulcorati dai miseri effetti di un consumismo alla portata di tutti, omologati alla vuota e massifica qualità di vita borghese che passerà nel rincorrersi delle stagioni come generazione e soggetto inosservati. Collante di quest’armata di convinti pseudo-Spiderman è l’indifferenza/rassegnazione/inerzia nei confronti dell’azione politica, la connivenza con le mostruosità del potere, l’insensibilità verso l’Arte nelle sue variegate forme di rappresentazione. Un genocidio di neuroni, un tripudio dell’inazione, una galassia di miserrimi.

E sì, siamo nelle mani di chi ha scambiato l’ambizione con il nulla e ha trasformato l’insuccesso e il fallimento in complesso di superiorità con diritto di voce e di vetrina al pari di Pasolini. Il Pier Paolo che con i suoi scritti e la sua filmografia gettava in faccia agli omologati palate di sterco della loro stessa inettitudine. Uno sterco in cui ci si annaspa tutti insieme e in cui non è dato sapere da dove soffia il vento. Solo un’epigrafe a sottolineare le differenze: distinti e distanti.

Foto di copertina © Letizia Battaglia

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