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di Salvo Vitale
Il 23 maggio è stato individuato, da qualche anno a questa parte, come data della giornata della legalità. L’argomento è tanto vasto e ricco di spunti da far correre il rischio di dimenticare che è la data in cui sono stati uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Anche il 9 maggio è stato indicato come “giornata del ricordo delle vittime del terrorismo”, ma si è dimenticato di inserire tra queste anche le vittime di mafia, che sono vittime del terrorismo mafioso, a partire da Peppino Impastato, ucciso nello stesso giorno di Moro.
Ci sono poi altre giornate d’impegno civile come il 21 marzo, giornata delle vittime di mafia, nata per iniziativa di Libera e diventata giornata nazionale oppure il 27 gennaio, giornata della memoria, nel ricordo delle vittime delle foibe, strumentalizzata da destra come momento per contrapporre le vittime del comunismo slavo di Tito alle vittime del nazifascismo.
L’organizzazione di queste giornate è un’occasione, soprattutto per la scuola, di allargare lo specchio delle tematiche scolastiche disciplinari a eventi e contenuti legati alla contemporaneità e alla legalità, ovvero di occuparsi di “cittadinanza e costituzione”, nuovo modo di ridefinire l’educazione civica: la scelta del 23 maggio non vuole togliere niente a Paolo Borsellino, il cui delitto è avvenuto il 19 luglio, in un momento in cui le scuole sono chiuse.
A margine della ricorrenza, legata a una strage di mafia nasce una domanda: l’educazione alla legalità è uguale, è la stessa cosa dell’educazione antimafia? La legalità è un termine universale che significa “L’essere conforme alla legge e a quanto da essa prescritto”. La conformità alla legge viene dopo l’esistenza della legge stessa, quindi la legge dovrebbe essere anteriore alla legalità. Ma anche su questo si può discutere: se la legalità è “l’idea platonica”, la struttura mentale di riferimento da cui si sviluppano e a cui fanno riferimento le singole leggi, l’idea di legalità dovrebbe per contro precedere le leggi stesse, che dovrebbero essere conformi, adeguarsi ad essa. C’è un particolare che apre la discussione: la parola “conformità” è troppo vicina alla sua degenerazione nel “conformismo”, che comporta l’accettazione passiva e pedissequa della legge. Per contro tutte le linee programmatiche educative e gli obiettivi dell’educazione scolastica prevedono la formazione, la stimolazione, la maturazione di una coscienza “critica”, di “una personale rielaborazione dei contenuti”, ovvero la capacità di saper mettere in discussione ciò che è reso obbligatorio dalla conformità alla legge. Tutto questo comporta una carica più o meno rivoluzionaria del “saper mettere in discussione”. E’ questo il senso, anzi il controsenso per cui la figura di Peppino Impastato, che è quella di un “ribelle”, di un “trasgressivo”, di una figura “critica” con le leggi, l’ordine costituito, le dinamiche del potere, la distribuzione della ricchezza, può diventare un esempio di educazione alla legalità, prima che un esempio di educazione antimafia, considerando l’educazione “antimafia”, un aspetto, un momento non esaustivo, della vasta tematica della legalità. Peppino Impastato, che usa il motto di Sartre “ribellarsi è giusto” è uno splendido esempio di come, rispetto all’autorità paterna, rispetto all’autorità istituzionalizzata, rispetto alle regole ipocrite della convivenza come conservazione della condizione sociale di privilegio, si può e si deve lottare per costruire le basi di una società, di un rapporto umano e politico tra gli uomini, diverso da quello che sino ad oggi ha tracciato le regole, e quindi “le leggi” del vivere insieme. Del resto sulla “validità”, sulla opportunità, sulla necessità, sull’arbitrio da cui nasce una legge, qualsiasi analisi ci mette davanti alla “precarietà” della legge, alla sua espressione o manifestazione di un momento storico, di un rapporto di potere tra classi sociali, di uno specifico interesse a mantenere e rafforzare questo potere, con tutte le manovre cui è possibile ricorrere.
Dopo di ciò iniziano i fiumi di parole delle quali, soprattutto nell’istituzione scolastica non si fa risparmio, per dare corpo e giustificazione alla progettualità, anzi alla “strategia” educativa, a partire dal “pieno sviluppo della persona umana” all’obiettivo di “rendere gli studenti e le studentesse protagonisti” a quello di “esercitare i propri diritti-doveri di cittadinanza… nel rispetto delle regole e nella partecipazione alla vita civile, sociale, politica ed economica”, allo scopo di dare attuazione alle garanzie che la Costituzione della Repubblica italiana prevede. Il MIUR utilizza questa terminologia e “per assecondare bisogni, interessi e aspirazioni degli studenti e delle loro famiglie, punta a una formazione di alto livello, funzionale allo sviluppo di una cittadinanza piena e consapevole. In tale ottica, per diffondere la cultura della legalità, ritiene di significativa importanza la collaborazione con tutti i soggetti sociali e istituzionali”.
Viene così motivato “l’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione” (secondo quanto previsto dalla legge 169 del 2008 e dall’articolo 1 comma 7 della legge 107 del 2015). Si tratta, nello specifico, di percorsi di educazione alla legalità, educazione alla cittadinanza attiva, al controllo e al contrasto dei fenomeni mafiosi e di criminalità organizzata”. Senza dimenticare che “la legge 92 del 2019 ha introdotto l’insegnamento scolastico dell’educazione civica”, che comunque già esisteva come disciplina affidata all’insegnante di storia, che in genere non ne faceva niente e che, per contro, dovrebbe e avrebbe dovuto occuparsi di stimolare “la conoscenza della Costituzione, delle istituzioni dello Stato italiano, dell'Unione europea e degli organismi internazionali”.
Per concludere con le belle parole, “L’insegnamento della legalità costituisce una delle frontiere educative più importanti e ha l’obiettivo principale di creare un circolo virtuoso fra i giovani cittadini e le istituzioni per incentivare l’assunzione di responsabilità del singolo verso la collettività.”
A chi affidare questo delicato compito? I dirigenti scolastici, all’inizio dell’anno scolastico si preoccupano di costituire, su basi volontarie, ove si eccettui l’indennità di qualche decina di euro, la Commissione “Cittadinanza e Costituzione”, composta da alcuni insegnanti volenterosi e che abbiano un minimo di dimestichezza nell’organizzare incontri con studiosi, magistrati, testimoni di giustizia, parenti di vittime di mafia, giornalisti. E’ stata addirittura sottoscritta, anzi rinnovata una “carta d’intenti (27 novembre 2018) tra Miur, Associazione nazionale magistrati (ANM), Direzione nazionale antimafia (DNA), Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), Consiglio superiore della magistratura (CSM), Ministero della Giustizia, per “ consolidare il percorso di collaborazione tra le istituzioni firmatarie, sensibilizzare le studentesse e gli studenti sui temi della legalità e della conoscenza e osservanza delle regole di cittadinanza attiva e favorire il contrasto alla criminalità organizzata”. Si verifica che tali incontri con le scolaresche spesso interrompono il normale iter scolastico delle lezioni, suscitando polemiche, falsi mugugni, o, in altri casi espressioni liberatorie, tra i docenti, i quali si dimostrano ostili, in quanto ritengono che si sottraggano loro ore di lezione. Ci sono alcune spiegazioni rispetto a tali prese di posizione: il docente, in tali momenti e “snidato” dalla sua cattedra e messo a confronto con altri che potrebbero offuscarne la centralità; il docente vuole “far credere” di sentirsi “disturbato” perché vuole “far credere” che egli è dedito al suo lavoro, che considera lavoro scolastico solo il suo e che la partecipazione a queste iniziative è una pura perdita di tempo che impedisce il normale svolgimento di quanto programmato nei suoi piani di lavoro: è trovato in tal modo anche l’alibi per giustificare l’eventuale mancato svolgimento del programma preventivato. Per contro l’insegnante che ha poca voglia di lavorare accoglie volentieri questi “svaghi” ricreativi e ne approfitta per affidare, anzi abbandonare i suoi alunni al relatore, e andarsene a correggere compiti, a preparare altre lezioni in sala professori, per non parlare d’altre attività, come se la cosa non lo interessasse o lo esonerasse dall’obbligo della sorveglianza. Ovvio che gli alunni, senza controlli si distraggono, giocano, si disturbano reciprocamente, chiacchierano, si dilettano col cellulare, si disperdono, finiscono con il dare ragione a chi considera tali iniziative pura perdita di tempo. Tutto è affidato alla capacità di organizzazione, di sorveglianza, di preparazione all’iniziativa, di stimolo della capacità d’intervento e soprattutto all’interesse che il relatore è in grado di suscitare, specialmente se è capace di rinunciare alle dotte manifestazioni di sapienza cattedratica e intavolare il dialogo con chi lo ascolta, parlando delle proprie esperienze. Non sono mancate proposte come quella di istituire “l’ora di antimafia”, presto abbandonate, sia perché ci vorrebbe un insegnante esperto dell’argomento, sia perché bisognerebbe come trovare come introdurre quest’ora in più nel monte ore settimanale, sia perché il rischio potrebbe essere quello di ridurre l’ora nelle stesse modalità e nella stessa consistenza dell’ora di religione. A parte tutto l’educazione alla “legalità” e la conseguente educazione all’antimafia, dovrebbero essere momenti e obiettivi trasversali a tutti gli insegnamenti e ogni docente dovrebbe specificare nel suo piano di lavoro lo spazio e i contenuti per portare avanti tale momento educativo. Ma naturalmente questo comporta l’aprire spazi, conoscenze e metodologie cui il docente della “specifica” disciplina non è preparato e che spesso comporterebbero seri momenti di aggiornamento per una totale messa in discussione di tutto il suo metodo educativo e del modo di comunicare le sue conoscenze disciplinari.
Riassumendo: legalità come obbedienza, conformità alle leggi o come pratica di sviluppo della capacità di non rendersene schiavo; antimafia come presa di distanza dal mafioso individuato, o come pratica sociale di comportamento rispetto ai problemi di una società in cui la mafia recita la sua parte delittuosa e parassitaria; educazione come trasmissione del sapere del docente nel vaso vuoto del discente o come metodo di interscambio, come pratica di vasi comunicanti nei quali il sapere del docente si incontra, si amalgama e si rielabora col sapere del discente. E-ducere, tirar fuori da…, tirar fuori qualcosa che c’è già, che da Socrate per arrivare a Danilo Dolci si chiama “maieutica”, cioè l’arte della levatrice, che tira fuori dal grembo materno il feto. Ma per far questo a quanta “pre-sunzione” di sapere bisognerebbe saper rinunciare!!!.

Foto © Imagoeconomica

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