di Alessio Pracanica
"Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant
Dove creano il deserto, gli danno il nome di pace".
(Vita e costumi di Giulio Agricola - Publio Cornelio Tacito)
Così scrive Tacito, a proposito della tanto decantata Pax Romana. Ragionamento che potrebbe valere anche per altre forme di pace apparente. Come l’altrettanto desertificante, ma spesso sottostimata pax mafiosa.
Fenomeno mimetico, che agli occhi di chi se ne lascia accecare diventa effetto ottico, miraggio di falso movimento, come in ogni deserto che si rispetti.
Esiste infatti una larga fetta di opinione pubblica che, in assenza di episodi eclatanti, tende e a dimenticare l’esistenza della mafia.
Ritenendo che i periodi di calma, senza sagome di gesso disegnate sui marciapiedi, coincidano con momenti di debolezza delle organizzazioni criminali o addirittura con la loro scomparsa.
Niente di più sbagliato.
Quella silenziosa quiete, immobile e fiaccante come i giorni di scirocco, è segnale di forza. Vuol dire che il denaro scorre, la merce arriva e ogni torta, degna di una qualche considerazione, è già stata divisa con equanime geometria.
Tutto fila alla perfezione, dagli appalti alle processioni.
Uomini e madonne, arrivati all’altezza della casa giusta, chinano il capo, col benevolo assenso del proverbiale vaso di coccio.
Non ce n’è alcun bisogno di sparare. Ognuno ha ricevuto la sua giusta percentuale di illegalità. Non c’è egoismo, particolarismo, appetito che non sia stato saziato.
Garantendo la stabilità di quel fluido e accurato mosaico che permette ai diversi poteri di incontrarsi senza collidere.
Il ruolo più immediato della pax mafiosa è agire da cinghia di trasmissione, trasferendo al basso in forma sublimata, quasi gas anestetico, la celestiale concordia raggiunta nelle alte sfere.
Paesi, quartieri, spesso intere città su cui al tramonto cala una sorta di coprifuoco. Senza un clacson, una voce, una canzonetta che spezzi quell’incantamento tutt’altro che magico.
Fatta eccezione per qualche isola di movida, spesso in mano ai prestanome e per l’urlo neomelodico che fuoriesce dai finestrini dei dispensatori di paradisi, ubbidiente solo alla legge di Doppler.
Non si resta in casa per paura, ma perché non si avrebbe dove andare, stante il Sahara umano e culturale circostante.
Migliaia di esistenze, imbrigliate nella nassa di un controllo fitto, quanto inapparente. Dove un occhio poco allenato faticherebbe a scorgere, nascosta tra le pieghe di una tacita presenza mafiosa, la fragorosa assenza dello stato.
Il migliore dei panorami, per chi non desidera affacciarsi. Beandosi della fortuna di vivere nel migliore dei mondi possibili.
Un bel posticino all’antica, con i valori di una volta, senza extracomunitari, rom e altri spaventosi nemici. In cui si può ancora dormire con la porta aperta.
A patto s’intende di essere in regola, se non con la propria coscienza, almeno con le rate del pizzo.
Una Sicilia irreale, ma concreta, che i tanti, troppi negazionisti decantano, contrapponendola alla vera mafia che sta a Roma. Lamentando parimenti certe esagerazioni che oltraggiano questa terra generosa e i suoi onesti, laboriosi abitanti.
Formule codificate, nelle quali si può riconoscere all’istante il vero fiancheggiatore mafioso, consapevole o no.
Categoria sempre ben rappresentata, specie in sede elettorale. Costantemente schierata in difesa dei già citati valori, che alla fine si rivelano sempre prezzi.
Da pagare con ogni moneta possibile, fisica, economica e morale.
Soprattutto con l’unica che non avremmo il diritto di spendere: il futuro dei nostri figli.
Foto: La bambina e il buio, Baucina, 1980 © Letizia Battaglia