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di Salvo Vitale
Ci si consola di quanto ci sta succedendo, appigliandosi alle cose più banali, alcune delle quali appartengono alla propria quotidianità, ma vengono “scoperte”, come si trattasse di novità. E così diventano eventi il salutarsi dai balconi, magari cantare e suonare, qualcuno poi fa notare che così si manca di rispetto ai morti e anche se il rispetto con la musica non c’entra niente, si smette, si mette in discussione anche questo minimo e rarefatto rapporto sociale. C’è chi, non avendo nulla da fare, usa il ditino sulla tastiera per criticare i provvedimenti del governo, c’è chi lo fa per esprimere apprezzamento, (in siciliano si dice “cu larga un ci trasi e stritta un ci veni”, oppure “avi sempri di diri comu l’orbi”) c’è chi si lamenta per non poter festeggiare un evento importante della propria vita o per non potere fare un funerale al proprio defunto, c’è chi si lamenta se l’altro non porta la mascherina, chi fa notare che non è obbligatorio, chi esce per fare due passi, perché non ce la fa più, e si guarda intorno per non essere sorpreso a commettere un reato, c’è chi è abbandonato a marcire in stazione o all’imbarcadero, per avere cercato di tornare a casa con i propri cari, c’è chi usa la videochiamata per vedere i familiari, c’è chi nota che l’aria delle grandi città è più pulita dallo smog, ma non dalla presenza del virus, c’è chi si rassegna senza una parola all’incremento spaventoso dei prezzi, che è appena iniziato, c’è chi viveva di qualche lavoretto occasionale e adesso non ha neanche i soldi per comprarsi il pane. In realtà, a guardar meglio ci sono sotto altre cose più gravi. C’è per prima cosa l’assenza della comunicazione diretta, la mutazione del reale in immagine, in proiezione visiva, della quale è facile la manipolazione. È connessa a ciò la “dipendenza”, il bisogno di legarsi a uno strumento che rappresenta l’unica possibilità di contatto con l’esterno, l’unico modo di sapere quel che succede fuori dalla propria casa-prigione: anche qua è scontato, ma non sempre, far notare quel che c’è sotto: la “manipolazione” della notizia, il suo confezionamento secondo standard che ne comportino l’audience e la condivisione, l’allineamento al modo di far notizia e comunicarla adottato dai vari mezzi d’informazione, la scelta solo di alcuni argomenti ed eventi e l’esclusione di altri. Tutto questo rende i destinatari dell’informazione fragili, succubi, deboli rispetto all’offensiva della notizia ritenuta vera e inoppugnabile. Il controllo dell’esterno, vero o ipotizzabile, si lega alla paura del dovere rendere conto e ragione dei propri spostamenti, all’obbligo del “restare a casa”, all’incattivimento, alla costruzione e all’amplificazione del distacco con l’altro, ritenuto un possibile nemico, portatore del virus e quindi attentatore della tua incolumità, e quindi all’arroccamento nella propria solitudine, all’inevitabile procedere della depressione, all’identificazione della possibilità in realtà, del male ipotetico in male reale. Quindi niente più amicizia, se non quella di Facebook, niente o diradarsi dei rapporti familiari, poiché non è consentito uscire da casa per andare a visitare i parenti. La maximulta per chi è fuori senza giustificato motivo, il drone utilizzato per controllare il mezzo che va in giro, l’esercito a presidio di piazze e accessi, rappresentano autentici e pericolosi affondo in quel che resta della libertà individuale e delle regole della democrazia. Difficile liberarsi dal sospetto che ci troviamo davanti a “prove tecniche di trasmissione” su come si è deciso che possa essere l’umanità di domani.

A seguito di questa nota aggiungo una personale rielaborazione e riduzione in versi di un brano d’apertura del blog di B. Grillo pubblicato il 30-10-2011


Come siamo diventati
“Dei remi facemmo ali al folle volo” (Dante)

L’airone plana sulla discarica
distratto dal suo cibo senza pesci.
Robocop, fiero dei suoi occhiali
che garantiscono la cromaticità del paesaggio
li toglie solo prima di iniziare
il suo sogno in bianco e nero.

Nubi in cielo con immagini,
migrazioni d’uccelli,
brusio del grano che cresce,
scroscio di pioggia sul deserto,
tutto è fuori dall’orizzonte quotidiano,
non c’è tempo per guardare.
Non alziamo più gli occhi al cielo,
camminiamo guardando a terra
per evitare gli ostacoli.

La curva delle spalle si accentua
sul gioco di un mondo che si spegne
luce flebile, come quella di una candela di sego,
che crediamo l’unica luce possibile.

E il sole ride estraneo
ai bordi delle regole di un gioco insensato
dove tutto è abitudine,
tutto esclude l'affermazione di un nuovo pensiero,
che gli altri non capirebbero,
magari sentendosi disturbati.

Non siamo più in grado di uscire dalla tana.
I nostri silenzi sono dettati dall'indifferenza,
da presunta impotenza,
il nostro mondo è immobile e tolleriamo tutto
pur di non guardarci allo specchio.

Ci sfiniamo a discutere di temi irrisolti,
dentro il cerchio magico da cui non possiamo uscire.
Chi discute con un imbecille
diventa un imbecille per chi lo osserva
e chi osserva è ancor di più imbecille, senza scampo.

Sul capo scorrono lievi venti di luoghi lontani,
che nessuno raccoglie,
corridoi d’altre terre,
viottoli di luce dove tutto è possibile,
e non c’è tempo per fuggire,
quel che siamo non lo consente.

Intruppati nel gregge
deleghiamo al profeta di turno
la facoltà di tracciare il cammino,
il nostro cammino.
Il leader pensa per noi,
noi dobbiamo pensare come ci dice il leader.

Un uomo che vale uno,
qualche volta molto meno,
diventa il padrone
perché noi decidiamo di valere zero.
Ma perché siamo diventati così?

E se ci fermassimo un attimo,
se tentassimo il volo rischioso?
Se non altro,
in attesa del gorgo finale,
potremmo ubriacarci del grande cielo azzurro.

Il brano è pubblicato nel libro di Salvo Vitale “Svisature” - Editore Billeci - Borgetto (PA)

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