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di Luca Grossi
28 gennaio 1946. In quella data Vincenzo Amenduni, Fiorentino Bonfiglio, Mario Boscone, Emanuele Greco, Giovanni La Brocca, Vittorio Levico, Pietro Loria e Mario Spampinato, venivano barbaramente uccisi dai banditi di Salvatore Rizzo in quella che venne ribattezzata come la Strage di Feudo Nobile. Ma facciamo un passo indietro.

Finita la seconda guerra mondiale la Sicilia era un cumulo di macerie e desolazione e povertà regnavano sovrani.
Gli Alleati, aiutati anche da componenti criminali mafiose, erano riusciti a sbarcare in Sicilia. Così anche dei capimafia dell'epoca arrivarono ad occupare ruoli di primo piano, come sindaci, in diversi Comuni, accrescendo in maniera esponenziale il potere delle cosche, meno evidente durante il ventennio fascista.

E' in questo contesto che si affacciava il banditismo violento che, anche per darsi un aria di “rispettabilità”, si affiancava ai movimenti indipendentisti.
Nella parte occidentale dell’isola era presente la banda di Salvatore Giuliano mentre in quella orientale prendeva piede quella di Salvatore Rizzo e Rosario Avila.
Questi gruppi criminali sono stati responsabili di numerosi crimini, come ad esempio la strage di Portella della Ginestra, ritenuta a tutti gli effetti come la prima strage di Stato, eseguita dalla banda di Salvatore Giuliano il primo maggio 1947.

Quel che avvenne a Feudo Nobile rientra in questa serie di delitti. Il calvario, per le vittime, iniziò già il 10 gennaio 1946 quando il brigadiere Vincenzo Amenduni uscì ad effettuare un controllo in seguito ad una segnalazione della presenza di un pascolo abusivo. La pattuglia era composta da cinque uomini: Vittorio Levico, Emanuele Greco, Pietro Loria, Mario Boscone e lo stesso brigadiere Vincenzo Amenduni; i tre restanti carabinieri Mario Spampinato, Giovanni La Brocca e Fiorentino Bonfiglio rimasero a presidiare la caserma. La pattuglia, dopo aver effettuato il controllo cadde vittima di un’imboscata dei banditi. I militari cercarono di opporre una forte resistenza ma, dopo un durissimo scontro, vennero comunque fatti prigionieri. Stesso destino toccherà anche ai carabinieri rimasti in caserma. Il duo Avila-Rizzo, tramite la mafia che aveva un ruolo di mediatrice, arrivò a intavolare una vera e propria “trattativa” con lo Stato per la liberazione dei militari.

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Da sinistra: Fiorentino Bonfiglio, Vincenzo Amenduni e Emanuele Greco


Le richieste erano chiare: la liberazione di alcuni capi indipendentisti, in particolare Concetto Gallo, arrestato il 29 dicembre del 1945 durante la battaglia di San Mauro. In caso contrario Avila chiedeva l’amnistia, per sé e per la sua banda, oppure un'agevole fuga all’estero. Il negoziato andò avanti per quasi tre settimane senza che si raggiungesse un risultato. I carabinieri furono costretti a spostarsi da una masseria all’altra, legati e semi nudi, sottoposti ad ogni genere di torture e sevizie da parte dei banditi. Il 28 gennaio le trattative naufragarono in modo irreversibile. Così Salvatore Rizzo ordinò di uccidere tutti gli otto i carabinieri, due ore prima della mezzanotte, incaricando i suoi scagnozzi di far uscire dal reclusorio i segregati, legati insieme a coppie, per condurli a Feudo Rigiulfo, a ridosso della contrada Bubonìa, ricadente nel territorio di Mazzarino. Quella zona venne scelta perché ricca di buche artificiali per l’estrazione dello zolfo. Dopo aver denudato i militari li fecero inginocchiare per poi ucciderli, uno alla volta, con raffiche di mitra.

Per completare la macabra opera i corpi vennero poi buttati in una buca profonda quindici metri dove rimasero per diversi mesi. Il ritrovamento dei caduti, avvenuto il 25 maggio 1946, fu possibile in seguito alle dichiarazioni di uno dei membri della banda che partecipò all’eccidio, tale Giuseppe Milazzo, il quale, dopo stringenti interrogatori, confessò il delitto rivelando il luogo e le modalità della strage. Condannato all'ergastolo, prima di morire il Milazzo riferì un ulteriore dettaglio: la sera prima del 28 gennaio un giovane elegante, mai identificato, si sarebbe presentato nel luogo in cui si trovava Salvatore Rizzo per comunicare che ogni trattativa per i militari era fallita.

Settantaquattro anni dopo la strage sul punto non si è ancora fatta chiarezza e resta aperta la domanda su chi, all'interno delle Istituzioni, decise di trattare, con la mediazione della mafia, la liberazione dei carabinieri per poi abbandonarli al loro destino. Troppe volte lo Stato ha permesso che i suoi uomini venissero lasciti soli e uccisi dalla criminalità organizzata.

Dunque resta un dubbio. Quest’anno le Istituzioni si ricorderanno dei caduti di Feudo Nobile? O si lascerà che il vuoto prenda altri pezzi di memoria?

Foto di copertina © Imagoeconomica

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