di Salvo Vitale
E’ scomparso Salvatore Lo Leggio, apprezzata figura d’intellettuale, comunista, pacifista. Lo conobbi nel 1968, allorché organizzavamo le lotte studentesche alla Facoltà di Lettere dell’Università di Palermo assieme a Peppino Impastato, a Nino Sole e ad altri gruppi di ragazzi che ruotavano militavano nei vari gruppi della sinistra extraparlamentare. Si era trasferito a Perugia, dove ha insegnato Lettere ed è stato impegnato oltre che nell’attività di produzione letteraria, in quella politica. È stato consigliere comunale a Bastia, fino alla svolta di Occhetto. E’ stato un attento studioso del pensiero della non violenza, e in particolare dei suoi rappresentanti italiani più noti, come Aldo Capitini e Danilo Dolci. E’ stato redattore della rivista “Metropolis”, si è impegnato anche con “Libera” ed è stato titolare di un blog e autore di numerose pubblicazioni. Sul giornale online Today Perugia leggiamo. “Personaggi come Salvatore sono ormai merce rara, in una società sempre più chiusa e insensibile alle corde della poesia. E indifferente alla politica, intesa come servizio per il bene comune”. Ciao, Totò. Rimarrai sempre tra noi.
In suo ricordo pubblico questo ricordo su Peppino Impastato, che fa parte di un mio libro di testimonianze di imminente pubblicazione.
Memoria d'un ribelle
(Salvatore Lo Leggio)
Nel 1968 Peppino ed io militavamo nello stesso gruppetto, la Lega dei Comunisti marxisti-leninisti, che si caratterizzava per il sostegno alla cosiddetta sinistra maoista. Ci entusiasmava nei discorsi di Chang Ching e di Lin Piao la guerra dichiarata ai “quattro vecchi” (la vecchia ideologia, la vecchia cultura, i vecchi costumi, le vecchie abitudini), ci esaltavano i loro slogan preferiti “Ribellarsi è giusto”, “Osare pensare, parlare, agire”. Erano certamente falsi idoli, ma esprimevano una ribellione, se si vuole piccolo borghese, che coinvolgeva tutto il vecchio ordine, dal livello familiare a quello politico, a quello sociale. Peppino era appassionato di Marcuse, insisteva sul fatto che la contestazione o era globale o non era. Lo contraddistingueva una volontà di incidere sulla realtà, anche nel suo paesino arretrato e mafioso, mentre io preferivo il movimento universitario, i dibattiti ideologici.
Ricordo solo un suo intervento in Facoltà, ma davvero memorabile. Doveva essere l'estate del 1968 e il movimento studentesco a Lettere era un momento di stanca, per via degli esami. Lo teneva vivo soprattutto uno strano personaggio, destinato a una gloriosa carriera accademica e non solo: Gianni Puglisi, che veniva dalla vecchia politica universitaria, quella degli organismi rappresentativi, e dalla gioventù socialdemocratica, ma era stato nell'occupazione del febbraio uno dei più implacabili accusatori del potere accademico. In quella fase era lui il “dominus” delle assemblee, ma nell’aula Cocchiara convenivano solo alcune decine di aficionados e qualche fuorisede di passaggio. Durante una di queste poco proficue riunioni io chiesi, con una mozione d’ordine, che invece di parlare di “organizzazione dell’Università” - era questo il primo punto - si facesse un bilancio del Maggio di Francia. Non ricordo con quale argomento, ma la vinse Puglisi e la mia mozione fu respinta.
In quelle settimane “L’Ora”, il quotidiano di Palermo, aveva accusato il Rettore dell'Università di Palermo, Michele Gerbasi, di avere smaccatamente favorito in un concorso (per un ruolo amministrativo, credo) un suo congiunto, tal Miserendino. Il tema di cui Puglisi intendeva parlare non era l’Università in generale, ma proprio lo scandaletto concorsuale. Il suo obiettivo era di far approvare un documento di condanna. Non appena finì la sua introduzione dall’alto dell’anfiteatro si precipitò come in volo Peppino Impastato, iratissimo. Gli gridò che di porcherie di quel tipo ce n’erano a bizzeffe in tutti gli angoli dell’Università, che non ci si poteva limitare al caso Miserendino e che il compito del movimento studentesco non era di abbattere Gerbasi per sostenere un altro gruppo di potere. Aggiunse che quello era un ben misero dibattere, mentre i nostri colleghi parigini tentavano l’assalto al cielo. Peppino non era pratico di giochi assembleari, ma, quando era in collera, il suo sarcasmo era in grado di distruggere qualunque interlocutore. Fu grazie a lui che la mia nuova mozione d'ordine, di scioglimento e riconvocazione a giorni dell'assemblea con un nuovo ordine del giorno, passò.
Più tardi sia lui che io entrammo nel PCd’I “linea rossa”, un gruppo che a Palermo più degli altri cercava un rapporto con gli operai ed in provincia otteneva simpatie tra i braccianti. A Cinisi c'era, da lui animato, un fortissimo gruppo dell'Ugc, la organizzazione giovanile di quel partitino maoista. Mi capitò di andare nella sua sede per qualche riunione: la sede era molto malandata, quasi una stamberga, ma i ragazzi erano tanti, almeno una ventina e su di essi era grande l'ascendente di Peppino. La comune militanza e la pratica amicale durarono fino all’autunno del 1971, quando cambiai città.
Dopo ci perdemmo di vista e le nostre scelte si divaricarono: io ritornai nel PCI, lui si avvicinò a Lotta Continua. Non sono dunque in grado di dar testimonianza sul più diretto impegno antimafia espresso negli anni successivi attraverso la radio, né sui dibattiti sulla droga, la liberazione del corpo e simili, di cui il film racconta. Posso raccontare di un nostro lungo colloquio, alla stazione di Palermo, dove spesso lo accompagnavo a prendere il treno, nella primavera del 71.
Nella città agiva da poco, legato al Manifesto, il Centro di Iniziativa Comunista della Sicilia, guidato da Mario Mineo, nei confronti del quale nutrivamo entrambi tanto ammirazione quanto diffidenza. Nella riunione di gruppo del Pcd'I avevamo discusso il documento di quell’organizzazione sulle elezioni regionali che si sarebbero svolte a giugno. S’era discusso soprattutto sulle originali tesi di Mineo sulla borghesia mafiosa come forma specifica del capitalismo in Sicilia e sulle proposte di lotta che ne faceva derivare. I più rozzi dicevano che la mafia sarebbe scomparsa con l’arrivo del socialismo, come la droga e la prostituzione, i più raffinati definivano quella impostazione di retroguardia, sostenevano che il nemico principale non era più la mafia, neanche in Sicilia. Nella nostra privata conversazione Peppino tentò di convincermi che Mineo su quel punto aveva ragione, che la lotta contro la borghesia, la mentalità e l’omertà mafiose era immediatamente lotta per il socialismo: mi parlò della grande ricchezza di Cosa Nostra, della capacità di condizionamento, della speculazione edilizia. Non mi convinse, fui convinto più tardi da molti e gravi eventi.
In foto: Matrimonio di Salvatore Lo Leggio. Peppino Impastato è il primo a destra