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di Mario Improta
Nota per i lettori: non troverete in queste righe la ricerca affannata di un eroe né, tantomeno, una chiamata alle armi contro un nemico. Troverete, se ne avete voglia, un'analisi prudente, ma non certo asettica, di una giornata politica importante per il nostro Paese.
Esco da lavoro, mi affretto ad andare al Senato dove mi aspetta un accredito per assistere alla seduta inerente le "Comunicazioni del Presidente del Consiglio G. Conte". Fuori da Palazzo Madama un gruppo folto, ma scoordinato, di manifestanti. Si respira un'aria pesante. E mentre penso che si respira un'aria pesante, si alzano una serie di urla ripetute, selvagge, (cito testualmente): "Traditori, infami, merdaioli".
Dopo un po' di attesa all'entrata, lascio il documento, ottengo il badge, salgo al secondo piano, entro in Tribuna, Conte ha da poco iniziato il suo discorso. Un discorso lento, pacato: il Presidente cerca, con difficoltà, di scandire bene le parole, ma come sempre affanna, si mangia le lettere. (Penso che sia un uomo timido, insicuro, pieno di complessi, che si fida delle idee, dei preconcetti più che degli uomini. Ha letto troppi libri ed ha letto troppe poche persone).
Dopo una parentesi circa i successi del suo Governo e le sfide che lo avrebbero atteso, incalza su Salvini. Punta il bersaglio. Prende la mira con attenzione. Si getta sull'obiettivo. (Adesso inizia a parlare più correttamente, le sue parole: mine. Macigni che rotolano sul Ministro dell'Interno).
Ad ogni colpo, fiero, Conte si ricarica della sua dignità, spesso (e senza alcuna indulgenza) lesa proprio dal VicePremier. Si leva sassolini dalle scarpe, macché, si leva montagne. Pezzo dopo pezzo, frase dopo frase, il Ministro è nell'angolo, esiliato: sbuffa, fa cenni per placare i suoi, ride sotto i baffi. Gesti da vero politico. Sans dout. Senza dubbio. Ma sotto il banco i piedi, frenetici, rivelano la sua agitazione. Le sue smorfie: immagini che rievocano alla mia memoria le scene della mia infanzia, quando, con istintiva ma non veritiera superiorità ascoltavo l'interrogazione del primo della classe. Beve un bicchiere d'acqua, poi un caffè.
Ascolto e mi compiaccio, attonito dico tra me "ma gliel'ha detto sul serio?!?". Che eleganza, che classe. Un discorso da manuale. Ha riassunto in maniera precisa il mio amore per le Istituzioni. Parole e moniti da ricordare, che non lasciano spazio a fraintendimenti. Non era una semplice ramanzina, non era un richiamo del Professore, era un avvertimento ai cittadini. Sveglia cittadini sveglia. Parole che forse, anzi molto probabilmente, solo lui poteva pronunciare in quell'Aula, oggi. Infatti, ho rivisto all'interno dell'Aula quasi le stesse scene, gli stessi personaggi, le stesse gesta, che poco prima avevo visto all'ingresso. Ed è sorto in me un triste convincimento: sì, è proprio vero che la politica non è altro che lo specchio della società. Anche qui cori di urla ripetute, selvagge: "Traditore, infame, merdaiolo".
Conte termina il suo discorso con qualche rimprovero e qualche consiglio, con toni pacati, a tratti cordiali, ai cinque stelle. Di Maio incassa, consapevole.
Terminato il discorso è il turno di Salvini, si alza in piedi. Il Presidente del Senato Casellati lo ferma: "Meglio lì, Ministro" (indicandogli, sgomenta, di tornare ai banchi dei senatori). Si accomoda tra i senatori, comincia a parlare.
Come due furie lo divorano l'umiliazione e la rabbia. Le sue parole? Vuote. Talmente scarne che non hanno mai catturato la mia attenzione, non mi hanno mai rapito. (Probabilmente ero ancora in estasi per il precedente discorso).
Un ultrà che fomenta la sua squadra, nulla di più. Ci sono le telecamere, bene, facciamo ancora campagna elettorale. Non ha replicato, nel merito, ad alcuna accusa del Presidente Conte. Nemmeno a quella più infamante e dura circa il suo essersi sottratto, vigliaccamente, di riferire sul "Russia-gate".
Tra una frase priva di senso e l'altra, i suoi immancabili ammonimenti da confessore che ti impartisce la penitenza di dieci Ave Maria, dieci Requiem Aeternum, tre Pater Noster. Cita, fra l'altro, e conscio della sua situazione, San Giovanni Paolo II, un discorso sulla "fiducia". Grida dei pentastellati si levano in coro: "Traditore, infame, merdaiolo".
Mente. Consapevole di mentire. Spudoratamente, come ad esempio quando, nella vacua illusione di scrollarsi di dosso la responsabilità di un governo fallito afferma: "Ma di che stiamo parlando? Hanno votato contro la fiducia sulla Tav". Fiducia mai apposta dal Governo.
E allora ho pensato: non è uno stratega, non è uno statista, non è un leader, non è un 'uomo forte'. Cos'è? E' il nulla mischiato al niente. Un pagliaccio. Un demagogo.
Concludo. Oggi ho avuto la dimostrazione che il vero Potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero Potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza.

Foto © Imagoeconomica

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