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Il discorso di Francesco Saverio Borrelli, Monteveglio, Bologna - 28 aprile 2002
Saluto e descrizione della figura del presidente Antonino Caponnetto

Ringrazio di cuore il sindaco di Monteveglio per il privilegio, altissimo, che mi è stato concesso nel partecipare a questa cerimonia, in una terra, in una regione, che da anni, da decenni, viene additata a tutta la collettività nazionale, e non soltanto a quella nazionale, come una regione esemplare per quello che riguarda la gestione della cosa pubblica e l'amministrazione locale. Una regione che, negli anni gloriosi della resistenza, e della resistenza armata, ha pagato un contributo di sangue particolarmente alto. Ho avuto recentemente occasione di leggere, in un periodico dell' A.N.P.I di Milano, il resoconto di un ufficiale americano, Peter Tompkins, che in quegli anni fu mandato per tenere i contatti tra la quinta e l'ottava armata, da una parte, e le formazioni partigiane dall'altra, e ci sono resoconti agghiaccianti su episodi di guerra guerreggiata sull'Appennino bolognese che forse non sono sufficientemente conosciuti, in questa terra, in questa comunità, che porta ancora ben marcata l'impronta della sua civiltà millenaria ed anche di quel personaggio straordinario, semplicemente straordinario, che e stato Giuseppe Dossetti, già professore di Diritto Canonico che ha combattuto la resistenza sull'Appennino bolognese e dopo è stato costituente, parlamentare nel consiglio direttivo della DC, e infine ha abbandonato la politica attiva per fondare la comunità di Monteveglio. E' in questo comune, che porta ancora l'impronta di un personaggio cosi eccezionale, che io sono chiamato a porgere la cittadinanza onoraria a Antonino Caponnetto.

Vorrei che si percepisse quella sorta di tremore, di imbarazzo, che sento nel dover svolgere questo ruolo oggi, perché di fronte a Caponnetto io sono un fratello minore e non soltanto per qualche anno che ci separa, ma minore perché di fronte a quella che è stata la sua vicenda, l'eroismo con cui volontariamente Caponnetto si è gettato nella lotta contro la mafia, quello che può essere la mia personale vicenda, quella che mi ha portato ai clamori della cronaca, è qualcosa di casuale e fortuito. Antonino Caponnetto, e non sarà mai sottolineato abbastanza, è stato un volontario della campagna antimafia, da un posto relativamente tranquillo - e io vengo da una procura generale e so che le procure generali sono posti di retrovia, relativamente sereni e tranquilli - da un posto tranquillo, e senza aspirare ad avanzamenti di carriera, Caponnetto ha chiesto di poter andare a Palermo, e lo ha chiesto dopo che il terribile attentato di Via Federico aveva stroncato la vita di Chinnici. Lui, con una ventina di altre persone che poi si sono ritirate, ha chiesto di andare a Palermo a combattere la sua battaglia e per quattro anni e quattro mesi ha condotto una vita di assoluto sacrifico e isolamento, una vita blindata pagando caramente questo gesto ma pagandolo con entusiasmo.

Pagando carissimamente questo gesto perché non soltanto si deve a lui tutto quel lavoro di organizzazione ed armonizzazione che ha portato, non soltanto, alla creazione del pool antimafia ma alla creazione, all'interno di quel pool, di un clima di collaborazione reciproca che, sappiamo benissimo, nelle procure non sempre si sa mantenere. Pagando un prezzo altissimo anche in termini personali perché sappiamo che Caponnetto, in quel periodo, per poter scaricare i magistrati del lavoro ordinario si è auto assegnato moltissimo lavoro che ha portato avanti personalmente, quando sappiamo che i capi degli uffici, ben di rado, affrontano direttamente le istruttorie. Antonino Caponnetto in quel periodo, ha resistito a intramettenze politiche, forse non numerose perché la personalità che lui dimostrava era da tale da non incoraggiare contatti che fossero meno che corretti, tuttavia ha resistito e ha protetto i propri collaboratori ed ha portato avanti questo lavoro titanico che ha dato origine al primo, serio, processo contro la mafia, il primo processo che sia stato fatto dopo la normativa del 1982, che ha creato il reato di associazione mafiosa.
E quando è andato via Caponnetto? Che quel gesto di volontario aveva compiuto in un età non più verdissima, e tuttavia lo aveva compiuto e portato avanti fino alle estreme conseguenze con uno slancio giovanile che è di esempio e ammonimento per tutti noi, quando ha chiesto di poter tornare nella sua Firenze?
Quando si era profilata la possibilità, anzi la quasi certezza, che il suo posto potesse essere preso da Giovanni Falcone, e fino all'ultimo momento, è stato disposto a revocare la sua richiesta di trasferimento a Firenze se non fosse stata assicurata questa successione. Soltanto quando Falcone, contando su appoggi che evidentemente poi gli sono stati tolti, gli ha assicurato la successione, Caponnetto ha accettato il suo trasferimento a Firenze.

Sappiamo come sono andate poi le cose: a Falcone, per una serie di motivi per una certa opacità, una certa inerzia del Consiglio Superiore della Magistratura nel seguire il criteri, se vogliamo consolidati ma non rispondenti al massimo a criteri di responsabilità, preferì a Falcone un altro personaggio che, di fatto, smembrò quel pool, sparpagliò le mille componenti della maxi indagine secondo le competenze territoriali, e questo fece sì che si perdesse di vista la prospettiva unitaria per cui il fenomeno della mafia, della mafia in Sicilia, poteva e doveva essere guardato per poter essere contrastato. Caponnetto, che durante gli anni della sua presenza a Palermo aveva conservato una discrezione esemplare, una volta che è andato in pensione, forse sotto la spinta emotiva della terribile stagione di sangue dell'estate 1992, ha deciso di voler continuare la sua opera in altre sedi e con altri mezzi ed ha iniziato un'attività intensissima, anche questa portata avanti con una fiducia e uno slancio stupefacenti in una persona di oltre 70 anni. Un'attività di diffusione di una cultura civica, diffusione della cultura civica tra i giovani, che non ha precedenti se non un esempio nell'attività che già Chinnici aveva cominciato in Sicilia negli ambienti studenteschi per far comprendere cosa fosse la mafia e quale dovessero essere la lotta contro la mafia. Quest'attività straordinaria, di Caponnetto, si è saldata nel 1994 qui a Monteveglio con la nascita dei comitati per la costituzione voluti da Giuseppe Dossetti. Durante gli anni terribili della Sicilia, durante quegli anni di fuoco e di sangue, quelli degli attentati, il presidente Scalfaro, che fu forse l'unico uomo politico che dette un sostegno morale, e non solo morale, all'azione di Caponnetto e al quale io sono fortemente legato anche per ragioni familiari, ebbe a parlare di nuova resistenza.

Di nuova resistenza contro l'inquinamento, da parte della mafia, della pubblica amministrazione e dei meccanismi dell'economia. Sapete che la parola resistenza mi è particolarmente cara, io con questa parola, e con il ricordo del fondamento della nostra costituzione repubblicana nella resistenza, ho iniziato l'ultimo discorso inaugurale alla corte d'appello di Milano…

1. Resistere…alla cultura dell'illegalità

…e su questo concetto vorrei ritornare perché resistenza non è soltanto resistenza armata, resistenza non è soltanto la nuova resistenza giudiziaria e di polizia contro la mafia, la resistenza sotto il profilo della resistenza permanente è un concetto di carattere morale e culturale che deve accompagnare tutti noi, giorno per giorno nella nostra attività quotidiana di lavoro, di lavoro nel pubblico e nel privato, e di contributo alla vita delle istituzioni. Resistenza già di per se richiama l'immagine di un valore che resiste all'attacco del disvalore; richiama il concetto del bene che resiste, e che si oppone, all'avanzata del male; richiama il concetto dell'umanità, dell'umanesimo, contro la brutalità; richiama il concetto progressivo che informa tutta la parte generale della nostra costituzione ed in particolare l'articolo tre. Questo articolo non è semplicemente l'enunciato, e il riconoscimento, di una situazione di uguaglianza che caratterizza tutti gli uomini e tutti i cittadini, ma costituisce il preciso invito al legislatore, all'interprete, affinché vengano rimossi gli ostacoli che impediscano l'effettivo raggiungimento di questa situazione di uguaglianza. Il mio richiamo alla resistenza è stato impropriamente interpretato, da improvvisati, da critici interessati a farlo, come se fosse una sorta di esortazione alla ribellione alle autorità, ribellione al governo in carica. Nulla di tutto questo. Quando io parlo di resistenza intendo un atteggiamento che ciascuno di noi deve interiorizzare ed esteriorizzare, un attività che prescinde da questa o da quella parte politica che sia al governo, un atteggiamento che deve essere di richiamo costante ai valori più profondi dell'umanesimo, ai valori più profondi della convivenza in una collettività armoniosa e proiettata verso il futuro.

Pensiamo alla vicenda che ho vissuto per anni in prima persona: che cosa è stata la vicenda di mani pulite se non un tentativo di opporre resistenza alla corruzione, ed è stata una vicenda che, per la verità, ha avuto un esito paradossale. Ricordiamo tutti come fin dalle prime battute (dopo un primissimo momento di sconcerto), ci fu un atteggiamento generale dell'opinione pubblica, della stampa e poi di una parte del mondo politico, di assoluto sostegno a quest'azione e questo permise al pool di Milano di andare avanti, e velocemente, visto che, sembrava, spontaneamente stessero cadendo tutti i baluardi che erano stati posti, e che esistevano, in una situazione di corruzione sistemica. Si assisteva, addirittura, a un fenomeno di collaborazione spontanea anche di coloro che erano stati protagonisti di quella stagione di corruzione. Ma che cosa è successo nel tempo: c'è stato un fenomeno, forse del tutto naturale, di graduale stanchezza, di graduale logoramento dell'attenzione dell'opinione pubblica. La procura di Milano e le sue iniziative stavano sulla prima pagina dei giornali, come forse dalla seconda guerra mondiale non accadeva, quotidianamente e lo stesso tema veniva quotidianamente dato in pasto ai lettori, ma quanto è durato questo, un anno, due anni, non molto di più, gradualmente è iniziato un fenomeno di stanchezza che da un punto di vista psicologico può essere spiegabile, da un punto di vista politico lo è assai meno o lo è ancora di più, perché diciamoci francamente, non c'è nessuna forza politica, soprattutto quando arriva al governo, che guardi con simpatia e con rispetto alla possibilità che la magistratura - questo potere dei tre, o dei quattro, poteri fondamentali dello stato- possa esercitare la propria funzione di controllo di legalità.

Legalità non significa soltanto che esiste un corpo di leggi, un corpo di principi e regole, non significa soltanto il dovere, che è un dovere morale prima ancora che civico, dei cittadini e degli enti di adeguarsi al corpo di leggi, legalità significa anche che deve esistere la possibilità di effettuare un controllo sul rispetto della legalità, e questo controllo tocca fondamentalmente alla magistratura. Possiamo ben comprendere che chi detiene il potere, il potere vero, il potere reale, il potere economico ed alcune volte il potere di governo non è facilmente disposto a lasciarsi controllare da altre istituzioni dello stato. Che cosa è la legalità, questo principio, quest'etica della legalità alla quale anche Giovanni Paolo II ha fatto richiamo nel suo messaggio del '98 per la giornata della pace, è il rispetto non solo della legge ma dei meccanismi che la costituzione e la legge ordinaria hanno posto per assicurarne il rispetto. Ed è proprio su questo versante che è iniziato l'attacco contro la magistratura, un attacco che si è iniziato con il mettere in dubbio la purezza degli intenti che animavano la magistratura, soprattutto quella milanese, nella continuazione delle operazioni di mani pulite: si è detto che in realtà non si trattava di un'operazione giudiziaria ma di un'operazione politica e che i magistrati avevano in animo di distruggere una determinata parte della classe politica salvando l'altra parte, peccato che questo non corrisponda al vero, giacché nelle nostre indagini di Milano non c'è stata parte, non c'è' stato personaggio dello spettro politico che governava l'area milanese, l'area lombarda, che non sia stato investito dalle nostre indagini, e dico questo anche con una certa qual ripugnanza perché non credo che i magistrati debbano dar conto su come si è distribuita nell'area ideologico politica del paese la propria attività.

Sotto un altro profilo devo osservare che se questi critici, questi denigratori questi calunniatori, spesso, dell'azione dei magistrati possedevano informazioni notizie o documenti su altri fatti di corruzione che non erano stati adeguatamente posti in luce, perché mai queste informazioni notizie e documenti non li hanno sottoposti alla magistratura, non dimentichiamo che in un paese civile la magistratura non ha il potere di setacciare, di propria iniziativa tutto il paese e tutti gli ambienti del paese. La magistratura, si muove su notizie di reato e queste possono provenire non soltanto dalla polizia, carabinieri o guardia di finanza, posso provenire da privati cittadini o da enti, e chi era in possesso di notizie realmente significative perché non le ha fornite? Questo io continuo a chiedermelo. Dicevo, questo attacco, quest'insofferenza, verso la magistratura, quest'insofferenza verso il principio e verso l'etica della legalità che è il solo scudo di cui possono disporre i non potenti perché i potenti non hanno bisogno di scudo alcuno, se lo fanno da se…
Quest'ostilità, dicevo, quest'attacco contro la magistratura, ha trovato purtroppo una qualche rispondenza positiva in una parte dell'opinione pubblica, della gente comune, in un paese come il nostro dove c'è un'atavica, e non per questo invincibile, tendenza ad aggiustarsi un po' le cose, a trovare il modo di uscire dalle difficoltà attraverso una conoscenza o un regalo, una strizzata d'occhio, una promessa di solidarietà in altra reciproca simile occasione.

In questo paese, ad un certo punto, quando la magistratura ha mostrato che faceva sul serio e non era solo questione di scremare una classe politica o di sostituire una classe politica con un altra, ma era questione di fondare questa nuova cultura o questo recupero della cultura della legalità nelle coscienze e nella vita quotidiana dei singoli, in questo paese, si è avanzato forse un segnale o sintomo di fastidio: "si va bene, adesso avete fatto il vostro show, abbiamo cambiato una classe politica, lasciateci lavorare in pace, lasciateci attendere in pace ai nostri piccoli traffici e traffichetti"… Noi italiani siamo un po' fatti cosi, scusate se sto parlando in questo modo familiare poco cattedratico, ma dobbiamo pur guardarci in faccia… Ed è per questo che quando io parlo di resistenza dico che la resistenza deve essere condotta contro tutto e tutti gli ambienti ma anche contro noi stessi, contro la tendenza alla pigrizia in noi stessi che in molte situazioni suggerisce una strada d'arrangiamento, che è forse la più facile, ma non sempre la più corretta. Facciamo attenzione, perché questa ostilità verso la magistratura noi l'abbiamo, in tempi recenti, vista concretarsi in atteggiamenti processuali assunti da imputati eccellenti, atteggiamenti che sono indirizzati a tutto tranne che a consentire che si arrivi all'accertamento della verità, quale che sia, anche se è una verità di innocenza, anche se è una verità di errore da parte della magistratura. Vediamo processi che si trascinano da anni, tra mille e mille eccezioni, quelle mille e mille che, haimè, i ricchi possono permettersi (possono stipendiare avvocati che curano le loro faccende per anni) ma che i poveri, e tra i poveri includo le decine, le centinaia di immigrati colti nel piccolo spaccio nel piccolo furto o nella piccola rapina, quelli, quei poveri, non se lo possono permettere, e allora vanno in galera, dritti diritti.

E ancora una volta, noi assistiamo ad una giustizia che, come in tempi lontani, è una giustizia CONTRO e non una giustizia PER i cittadini, una giustizia per il potere, una giustizia contro chi il potere non ha.
Sto dicendo forse cose forti ma sono cose che sento profondamente.

2. Resistere…alle furbizie della "filibusta"

Ma non parliamo soltanto di atteggiamenti di carattere culturale o di atteggiamenti di non collaborazione, adesso noi stiamo attraversando una stagione in cui ci sono provvedimenti legislativi alcuni già varati altri in gestazione o solo accennati all'orizzonte, che sono uno più sconcertante dell'altro. Ricordate certamente la vicenda della legge sulle rogatorie: grazie a dio è una legge che è stata fatta male, tecnicamente male, e quindi non ha raggiunto l'obiettivo che probabilmente, anzi con tutta franchezza possiamo dire che chiaramente, si proponevano coloro che l'hanno elaborata, e qui viene anche da chiedersi come mai dopo la firma dell'accordo italo-svizzero del 1998, nella precedente legislatura non ci si sia preoccupati di ratificare quell'accordo e renderlo legge, offrendo così il destro alle nuove maggioranze per (è uno dei primi atti compiuti) approvare una legge che non è soltanto di ratifica di quell'accordo, ma anche una modifica del codice di procedura penale in tema di rogatorie e che si proponeva, appunto, l'obiettivo di porre degli ostacoli pressoché insuperabili all'utilizzazione di documentazione acquisita, e dio sa quanto faticosamente, dalla collaborazione internazionale e in particolare dalla collaborazione con la svizzera. Ci sono, poi, state delle ordinanze dell'autorità giudiziaria che hanno ricollocato questa legge in un contesto più ampio, l'hanno posta in relazione con altri accordi interni con altri principi vigenti nel nostro ordinamento così che quei propositi di neutralizzazione e di paralisi che erano all'origine del disegno e dell'approvazione della legge fino a questo momento non sono stati raggiunti.

C'è anche l'incredibile legge che ha pressoché depenalizzato il falso in bilancio in un'economia basata sul capitale, (e le economie moderne sono basate sul capitale e sulla libera circolazione di capitali) consentire che le società di capitale possano commettere dei falsi, possano ingannare, non soltanto i propri diretti contraenti, ma ingannare il pubblico indifferenziato dei risparmiatori su quella che è la reale consistenza delle loro attività e la reale natura dei loro conti, consentire che possono fare tutto questo senza - o quasi - sanzioni di tipo penale è qualche cosa che pone l'Italia a livello dei paradisi societari, dei paradisi fiscali di cui, per anni, abbiamo deplorato l'esistenza. È poi in gestazione un progetto di legge, non ricordo se di iniziativa parlamentare, sulla bancarotta fraudolenta, che attualmente è punita con una pena fino a 10 anni anzi fino a 15 con le aggravanti, per la riduzione della pena con un minimo di un anno e un massimo di tre, il che significa che non ci sarà più nessun bancarottiere per distrazione, quelli che prendono i soldi dalla cassa della loro azienda e se li portano in Svizzera, che andrà in prigione perché con tre anni di condanna si viene affidati ai servizi sociali, io mi chiedo se questo non sia un modo per rendere l'Italia una sorta, ricordate Salgari, di Tortuga, dove si riunivano tutte le filibuste delle Antille!
Abbiamo avuto la legge sul rientro dei capitali, si è detto che l'Italia aveva bisogno di rinsanguare le proprie finanze e che i soldi dovessero tornare, ma che possono tornare in Italia capitali sporchi, riciclati, provenienti da traffico di stupefacenti da traffico di armi, e altre brutture di questo genere e pagare soltanto il 2,50 per cento per essere nazionalizzati, e in questo modo lavati e purificati, queste non sono iniziative che gridano vendetta di fronte al mondo!

Quando, poi, si è trattato del così detto mandato di cattura europeo, che era soltanto una modalità particolare per facilitare le estradizioni all'interno dell'unione europea, si sono opposte mille opposizioni ammantate di nazionalismo, del principio di sovranità, dicendo che l'Italia non può rinunciare ad un pezzo di sovranità. Tutte obbiezioni che, per la verità, non solo l'Italia oppone ci sono anche altri paesi gelosamente legati alla propria nazionalità e alla propria sovranità che ostacolano il realizzarsi di questa più ampia unità a livello continentale, unità che è indispensabile, come lo è stata sul piano economico, e che deve diventare vera unità anche sul piano delle istituzioni e sul piano della repressione contro la criminalità, perché senza di questo noi saremo disarmati di fronte alla criminalità che è ormai transnazionale. La grossa criminalità dei traffici è transnazionale e se non si ottiene l'unificazione delle istituzioni, delle normative e la piena collaborazione tra tutte le componenti europee, noi non avremmo mai ragione di questi fenomeni. Ma passiamo a considerare altri aspetti che riguardano più da vicino la condizione della magistratura e vediamo un po' cosa ci si propone di fare: innanzi tutto, e questo viene considerato come un "must" come un obbiettivo indeclinabile dalla maggioranza, la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudicanti. Questo è un argomento che, mi rendo conto, possa essere riguardato con qualche scetticismo, con un ventaglio di diverse opinioni possibili, ma c'è un'osservazione di carattere metodologico che io continuo a porgere, senza avere mai avuto il bene di una risposta seria e razionale: perché si vogliono separare le carriere, perché il p.m e i giudicanti sono tra loro troppo vicini? Perché hanno fatto il medesimo concorso? Perché alloggiano negli stessi palazzi di giustizia e magari qualche volta vanno a prendere il caffè insieme?

E perché possono passare una parte all'altra della magistratura? Ma si è mai verificato se e quante volte le pronunzie dei giudici si scostino dalle richieste dei p.m, si è mai fatto una verifica sul campo di questo? Perché quello che si vuole, da parte di chi vuol separare le carriere, o almeno che si dice volere che cosa è: evitare una troppa supina condiscendenza dei giudicanti rispetto alle richieste dei pubblici ministeri, ma andiamo a vedere se esiste davvero quest'acquiescenza dei giudicanti alle richieste dei p.m, e quante volte essa sia addebitabile ad un cedimento da parte del giudicante e quante volte lo sia invece ad una perfezione di mira del p.m, quante volte ad altri fattori, o a fatti nuovi che si sono verificati nel corso del dibattimento e che giustificano la motivazione assunta dal giudice. Questa ricerca concreta non è mai stata fatta, ebbene prima di cambiare l'esistente occorre una ricerca sul campo che ci dia ragioni non astratte e di pura e semplice geometria istituzionale, ma ragioni concrete per modificare la realtà, per mutare una realtà che fino ad oggi ha dato dei frutti positivi, perché, posso attestarlo io, e Caponnetto può convalidare, il passaggio dei magistrati dall'accusa al giudizio e viceversa, è sempre servito per arricchire la cultura, l'esperienza e la sensibilità dei magistrati. E' anche vero che c'è chi fa il p.m dai 25 fino ai 70 e resta un ottimo p.m, e così un giudice che fa il giudice dai 25 anni fino ai 70 può essere un ottimo giudice, ma io ho verificato che questo passaggio arricchisce, fa sì che il p.m acquisti e coltivi in se quella che è stata chiamata la cultura della giurisdizione, senza la quale rischia di schiacciarsi su posizioni poliziesche. Sia ben chiaro che dicendo così non intendo assolutamente diminuire quella che è la funzione delle polizie nell'ambito delle istituzioni, quella che è la funzione necessaria e indispensabile che le polizie non possono non avere, ma il p.m deve essere colui che verifica la legittimità delle iniziative della polizia e poi le porta avanti, le coltiva con l'ausilio della polizia e le porta fino al vaglio dibattimentale, quindi è dannoso per il p.m essere schiacciato o auto schiacciarsi su posizioni di supina e passiva ricezione di ciò che gli proviene dalle forze di polizia.

Dobbiamo anche ricordarci che già ora esistono delle cautele per il passaggio dall'uno all'altro settore della magistratura, già occorre una permanenza di alcuni anni nel posto che si occupa prima di poter chiedere il passaggio, già ora occorre il parere del p.m di idoneità; Allora qual è il legittimo sospetto? E' che la separazione delle carriere, o quella che viene chiamata, un po' ipocritamente, la separazione delle funzioni, (come se non esistesse già la separazione delle funzioni: io non ho mai visto un p.m scrivere sentenze o un giudice scrivere requisitorie o fare indagini !) serva a distaccare il corpo dei p.m da quelle rigide, rigorose, garanzie che la costituzione prevede per i magistrati e, gradualmente, attirarlo nell'orbita e nell'area del potere esecutivo e del potere politico. Si dice che in tanti paesi del mondo è così: può darsi, ma ogni paese ha la propria storia, la propria tradizione e sensibilità e il proprio modo di rapportarsi verso la collettività. Ci sono paesi in cui le cose sono effettivamente in questi termini ma sono spesso paesi in cui c'è una coesione della popolazione, della collettività nazionale, intorno alle sue istituzioni e una coscienza istituzionale da parte di chi è chiamato a ricoprire incarichi di rilevanza pubblica, che garantiscono contro il rischio di pericolosi scivolamenti. Da noi non c'è dubbio che il disegno sia quello, non per nulla è periodicamente ricorrente la proposta di sottoporre le iniziative dei p.m e le indagini sui vari settori della criminalità a delle direttive provenienti dal parlamento. E io non posso non ricordare che questo è stato un tema sul quale Caponnetto ha discusso quando si è trattato di inventare e costruire la procura nazionale antimafia, che nel disegno originario prevedeva proprio che la direzione nazionale antimafia operasse su indicazioni e direttive fornite dal parlamento, Caponnetto mise sull'avviso Giovanni Falcone, che allora era al ministero, e questi aspetti della normativa furono cancellati.

Su che cosa altro si punta, ancora? si è puntato, perché ormai è già legge, sulla modifica del sistema d'elezione del Consiglio Superiore della Magistratura e sulla diminuzione del numero dei consiglieri, così che un C.S.M che già affannava a tener dietro a tutti i propri compiti, depauperato di un terzo dei propri componenti, è evidente che affannerà ancora di più, fintanto che cospicue parti di quelle competenze che gli sono state devolute, o che il Consiglio si è attribuito interpretando il fondamento delle norme costituzionali, verranno inevitabilmente affidate ad altri organi e quindi sottratte all'organo fondamentale dell'autonomia dei magistrati. Si è parlato, anche, di una scuola per la magistratura. Bello! Peccato che questa scuola è, in questa configurazione provvisoria, appoggiata alla Corte di Cassazione che certo fa parte della magistratura ma, appoggiare alla Corte di Cassazione una scuola (a parte il fatto che la sezione della Cassazione dell'Associazione Magistrati si è ribellata a questa possibilità) significa verticizzare la magistratura e il verticismo nella magistratura è il contrario di quella soggezione del giudice soltanto alla Legge che è fortemente sancita dalla nostra costituzione. Si è parlato ancora di restituire alle polizie la loro autonomia e di staccare le polizie dai pubblici ministeri, quasi che le polizie non abbiano già ora la loro autonomia, un'autonomia di cui forse per la prosecuzione delle indagini non fanno abbastanza uso, perché purtroppo da quando è entrato in vigore il nuovo codice è invalsa sempre di più l'abitudine di portare la notizia al magistrato e poi di attendere le istruzioni, ma questo non è necessario, non è scritto da nessuna parte, la polizia può continuare le sue investigazioni naturalmente, ma allontanare le polizie dalla magistratura a che cosa serve?
Le polizie, con tutto il rispetto e con tutto l'apprezzamento affettuoso per il lavoro che svolgono, dipendono dal potere esecutivo, se il canale attraverso cui le notizie di reato devono giungere alla magistratura è più strettamente vigilato e controllato dal potere esecutivo, questo significa che l'attività di controllo della magistratura sulla legalità del comportamento anche degli altri poteri, oltre che dei cittadini, viene ostacolata e viene condizionata da quegli stessi enti, da quegli stessi poteri che dovrebbero essere assoggettati al controllo.

Non parlo poi di un'altra singolare proposta che, per la verità, è stata soltanto il frutto dell'esternazione di un personaggio e non è stata, ancora, ospitata in nessun concreto disegno: la liberalizzazione o l'ampliamento della possibilità di servirsi di armi o di avere il porto d'armi. Questa è un'americanata! Un'americanata che in America porta a conseguenze gravi, poiché il numero di omicidi volontari che ci sono lì non è lontanamente paragonabile a quelli che si verificano in Italia. Certamente incrementerebbe i fatti di sangue anche da noi, perché quelle liti che potrebbero finire con un cazzottone o un naso rotto, potrebbero finire con una sparatoria, non dimentichiamocelo. Ed anche questo è un modo subdolo per acquisire la benevolenza, la comprensione e la simpatia di determinati strati della popolazione che non si sentono sicuri, e qui passiamo al problema della sicurezza: è vero, esiste un problema di sicurezza, esiste la microcriminalità, non dappertutto nella stessa misura, è vero che esistono le rapine nelle villette, parlo della Lombardia e del nord Italia, è vero che esiste lo spaccio di stupefacenti, è vero che esistono gli scippi alle persone di età che vanno alla posta a ritirare la pensione, è vero tutto questo ed è vero certo che occorre una presenza forse più attiva delle forze dell'ordine.

3. Resistere…alla deriva delle coscienze

È necessario, però, esporre sempre con sufficiente chiarezza e analiticità tutti i risvolti dei problemi, tutte le ripercussioni che un intervento, piuttosto che un altro, possano avere magari in regioni lontanissime, regioni concettuali intendo, lontanissime da quelle su cui l'intervento è stato spiegato, perché attraverso questa falla possono entrare delle innovazioni, ma delle innovazioni semplicemente pericolose o micidiali per il sistema. Bene, ho parlato di resistenza e forse un po' sul resistere vorrei concludere: resistere a che cosa?
Resistere a questa deriva cui la collettività nazionale rischia di abbandonarsi un pò per atavico scetticismo, un pò per pigrizia un po' per le fascinazioni di sirene che cantano nel mare, nel mare della comunicazione di massa e inducono a quella direzione, a una deriva. Conducono verso un assetto in cui la questione morale non è più una questione centrale, non viene più addirittura percepita, e la questione della legalità si trasforma nella questione degli interessi, nella questione degli interessi che devono prevalere, negli interessi di qualcuno. Resistere alla desensibilizzazione delle coscienze, alla desensibilizzazione in ciascuno di noi della coscienza civica intesa come la consapevolezza dell'interdipendenza di tutti i nostri legami verso gli altri individui, verso il prossimo, verso la società, l'interdipendenza di ciascuno da tutti noi. Resistere alla tentazione antipolitica del delegare, il far sì che altri pensino per noi, e quindi volontà di partecipare, come da Monteveglio ci viene insegnato, di partecipare a tutti i livelli in ogni momento, di portare il nostro apporto alla vita della società. Resistere alla tentazione della chiusura individualistica, familistica o di clan, e alla stessa tentazione della chiusura nazionalistica o di etnia. E qui inserisco un'altra parola che appartiene al mio linguaggio corrente: speranza. Sono stato, una volta, rimbeccato da un giornalista peraltro laico e mio buon amico, che, avendo io parlato in un'intervista di speranza in un momento che sembrava proprio non ci fosse più nulla da sperare e che il pessimismo volesse prevalere, mi ha preso in giro per la menzione di questa virtù teologale.
Ma io dico che la speranza e io sono laico, un laico che, come il Cardinal Martini ci ha insegnato, sa ed è consapevole che c'è un lungo cammino che laici e credenti possono compiere insieme condividendo gli stessi valori e puntando agli stessi obiettivi; ebbene io vi dico allora, e non paia un sacrilegio, che anche noi laici dobbiamo avere fede, speranza e carità: dobbiamo avere fede, fede nel valore dell'uomo, nel valore dell'uomo che la nostra tradizione umanistica occidentale ci ha consegnato, e noi dobbiamo accogliere nelle nostre mani e trasmettere ai nostri figli, la carità laica è il senso di solidarietà, è il senso di amore del prossimo, partecipi come siamo, tutti, della medesima umanità.
Ricordo i versi di quel poeta del '600 che diceva: io partecipo dell'umanità, ogni uomo che muore, muore un pezzo di me, ogni uomo che viene ferito viene ferita una parte di me, perciò quando suona la campana non chiederti per chi suona la campana, essa suona anche per te.
Bene, questo è il senso d'appartenenza all'umanità che dobbiamo avere anche noi laici.

E infine la speranza: significa confidare nella possibilità che le nostre azioni abbiano un esito, incidano nella realtà. Significa avere la consapevolezza che ogni nostro gesto incide nella realtà, il gesto cattivo come il gesto buono ma soprattutto il gesto costruttivo e se noi abbiamo questa consapevolezza che nulla va perduto di quello che facciamo e diciamo in questo mondo, questo significa aver fiducia in noi stessi e significa avere la speranza in senso laico.
Voglio finire con la menzione di una virtù cardinale: la giustizia, come ho letto la settimana scorsa su di un pannello nel palazzo ducale di Genova, un pannello affrescato dal De Ferrari, "ut iustitia inconcussa videat" perché la giustizia non perisca.

Tratto da: antoninocaponnetto.blogspot.com

Foto © Imagoeconomica

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