di Savino Percoco - Foto
Intervenuto a Bari, presso l'Auditorium dell'Istituto "L. Santarella", il Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia e antiterrorismo Nino Di Matteo, per presentare il libro (Il Patto Sporco), redatto con il giornalista Saverio Lodato e ritirare il primo riconoscimento alla legalità, istituito dall’ass. Gens Nova Onlus
Giovani generazioni
Un Di Matteo che nonostante la visibile stanchezza fisica, non risparmia l’estremo delle sue forze, donando intensissima carica emotiva e ricca di amore, al pubblico più giovane, a cui più volte richiama l’attenzione.
Il magistrato, lascia emergere un’ampia immagine paterna e protettiva verso le future generazioni, invitando i ragazzi a non cedere allo sconforto provocato dagli strascichi di anni di malgoverno e confrontarsi con le Istituzioni, rendendosi protagonisti di quel cambiamento auspicato, sottolineando che “la lotta alla mafia non è soltanto una mera repressione criminale, e non può essere delegata soltanto ai magistrati e alle forze dell’ordine, è una lotta per la libertà”.
Rievocando le parole di Falcone, evidenzia che il “fenomeno” mafioso sarà sconfitto solo quando la politica renderà la lotta alla mafia il primo punto di Governo e dal basso, in particolare nelle fasce giovanili, prenderà vigore una rivoluzione culturale in grado di rifiutare raccomandazioni, appartenenze lobbistiche, massoniche, ecc. “Soltanto se i giovani saranno portatori di questo tipo di ideali alla fine le mafie potranno essere sconfitte”.
Di Matteo descrive ai ragazzi come le mafie acquisiscono potere
Racconta che attraverso la testimonianza del collaboratore di giustizia Cancemi, si scopre che Riina riferisse ai suoi solidali che la mafia sarebbe stata solamente una “banda di sciacalli” facilmente debellata dallo Stato, se non avesse costruito rapporti con quest’ultimo. Sottolinea poi l’importanza di trasformare la lotta al crimine organizzato in una questione di interesse nazionale poiché le cosche hanno ormai insediato i loro affari anche nel nord Italia e da alcune sentenze definitive emerge un quadro devastante che ha determinato la storia del Paese.
Tra queste specifica il verdetto su Giulio Andreotti, che gli attesta un consapevole rapporto con i vertici della mafia siciliana fino al 1980, incontrati prima e dopo l’uccisione di Piersanti Mattarella, per discutere dei danni che l’azione moralizzatrice del fratello dell’attuale Presidente della Repubblica stava arrecando a cosa nostra. Lamentando però, con un velo di sconforto, come invece la figura dell’ex Presidente del Consiglio democristiano, sia stata ripristinata attraverso una mistificata credibilità mediatica.
Cita anche la sentenza definitiva del 2014 che attribuisce a Marcello Dell’Utri un ruolo chiave tra il ‘74 e ’82 nella gestione dei rapporti tra i capi di alcune famiglie mafiose palermitane e Silvio Berlusconi.
Rivolgendosi con tono forte e passionale ai ragazzi, esprime la sua personale sofferenza verso il clamore mediatico e istituzionale sollevato verso aspetti criminali minori, ma puntualmente assente per dinamiche mafiose come le su citate.
Trattativa Stato-Mafia
Per contrastare le travisazioni dei fatti o l’assordante silenzio calato sul Processo e relativa sentenza di 1° grado in merito alla Trattativa, nasce l’idea di scrivere “Il Patto Sporco”.
Introduce così Di Matteo l’argomentazione verso il suo libro; dall’accoglienza diffamatoria che minava la credibilità del Processo e degli inquirenti che lo sostenevano, accusati persino di “costruire l’inchiesta per conseguire scopi personali”, al silenzio, a suo parere imposto, e che definisce un “muro dell’omertà istituzionale e mediatica”. Entrando poi nel merito, inizia il racconto chiave, da quando all’indomani delle stragi, una parte delle istituzioni cerca il contatto con Riina attraverso Vito Ciancimino per trovare un compromesso finalizzato alla cessazione delle bombe. Strategia che il Sostituto Procuratore nazionale anche in virtù delle sentenze di Firenze e Milano, considera di pessima utilità, perché non ridusse lo spargimento di sangue e rafforzò il piano di egemonia corleonese per il controllo dei vertici governativi.
Su questo aspetto, cerca di spiegare e rispondere a quelle critiche che evidenziavano come trattare non rappresentasse giuridicamente un reato, difatti, la sentenza non condanna un tradimento, ma la ”violenza al corpo politico dello Stato” che aveva condotto anche uomini delle istituzioni a rafforzare il concorso di reato, di fatto proseguito nel corso degli anni. Specifica il magistrato che tre Governi dopo le stragi, furono raggiunti dalla minaccia di ricatti mafiosi, presieduti da Amato, Ciampi e Berlusconi, ma nessuno tra questi denunciò gli accaduti, sottolineando che addirittura nel ’94, l’ex Cavaliere, da poco acquisita la Presidenza dei Ministri “cerco in qualche modo di mandare un messaggio positivo a Cosa Nostra” attraverso un DL che fu successivamente stoppato.
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Storia delle Trattive
Restando in tema, Di Matteo racconta anche un po' di storia, partendo dal dialogo avvenuto tra Lucky Luciano e gli uomini vicini al Presidente americano Roosvelt che per i fini bellici e politici della seconda guerra mondiale accordarono l’ormai noto sbarco in Sicilia che scaturì anche nell’imposizione di amministrazioni comunali affidate a capi mafia. Secondo il magistrato, è importante ricordare questi episodi o la vicenda del bandito Salvatore Giuliano, “perché la storia di cosa nostra e dello Stato non è stata sempre di contrapposizione frontale ma anche di mediazioni che hanno poi legittimato l’organizzazione mafiosa”, dal momento in cui l’Istituzione ha riconosciuto un capo mafia come suo interlocutore.
Giorgio Napolitano
Il togato testimonia che durante la fase processuale sulla trattativa, un canale informativo che si stava aprendo con gli apparati istituzionali si troncò nuovamente in coincidenza al conflitto di attribuzione sollevato dall’ex capo dello Stato nei confronti della Procura di Palermo, riguardo le intercettazioni tra Giorgio Napolitano e l’ex Ministro Nicola Mancino. Inoltre, elencando molteplici episodi analoghi, gestiti anche con minore accortezza rispetto al caso in esame e legati a intercettazioni che hanno visto protagonisti vari capi del Quirinale succeduti negli anni, fa notare che furono adottate particolari forme di richiamo. Nel merito, sfoga un senso di ingiustizia ai provvedimenti disciplinari subiti con i suoi colleghi del pool Trattativa, lamentando anche l’assenza di oggettivi chiarimenti al merito.
Racconta che in tanti tra colleghi, avvocati o professori universitari gli affermarono di aver compiuto il giusto dovere, ma che fosse però inopportuno agire sul Presidente della Repubblica.
Esprimendo il suo parere a riguardo, dice che “se la magistratura si lascia condizionare nelle proprie scelte da un criterio diverso da quello della doverosità giudica, tradisce il mandato che gli è stato conferito dalla Costituzione”.
Mafia e Corruzione
Di Matteo ritiene che oggi le mafie, comprendendo i rischi generati dalle forme di violenza, anche in virtù della grande mole di denaro in loro possesso, prediligono l’adozione di metodi corruttivi.
A proposito, fa notare che tra i circa 50 mila detenuti delle carceri italiane, solo una decina stanno scontando una condanna definitiva per corruzione o reati contro la pubblica amministrazione. Riflettendo quindi, chiede se l’Italia è esente da corruzione o quest’ultima è impunita o graziata dal meccanismo della prescrizione.
Francesco Del Bene
Tra il pubblico in sala e tra giovani e cittadini era presente anche uno il magistrato Del Bene, componente anch’egli del team d’inchiesta della Trattativa. Chiamato al saluto e in forma brevissima ha ricordato la sua indagine sul boss Lo Piccolo e ribadito i punti di forza già espressi da Di Matteo.
Foto © Antonella Morelli
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