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locascio luigi e claudio cioe nei cento passidi Valentina Barresi - Video
"Era di passaggio" è il racconto più autentico del militante di Cinisi, dalla viva voce dei compagni di lotte e di vita, tra cui Salvo Vitale che abbiamo intervistato
Attiva una campagna di crowfunding per coprire i costi del film con "testimonianze ed elementi inediti, finora spariti dalla narrazione di Impastato", dalla militanza alla morte e al depistaggio, spiega il regista Pietro Orsatti. La caratteristica più importante di Peppino? "Quella di comunicare, di costruire il gruppo, di organizzare la lotta, di non fermarsi e chiudersi nel proprio orto, rispetto a un mondo nel quale ci si sente stranieri", dice l'amico Vitale
Restituire la memoria autentica di un’esperienza collettiva che ha segnato la storia dell’antimafia e non solo: questa l’urgenza dietro Era di passaggio, documentario che rimette insieme i frammenti di una stagione di rivoluzionaria bellezza che qualcuno pensò di poter disintegrare il 9 maggio 1978. Di ridurre a brandelli insieme a Peppino Impastato lungo i binari della messinscena. Di alterare insieme alla verità, perseguita strenuamente per 24 lunghi anni dai compagni del militante di Cinisi, tra i quali Salvo Vitale.
Professore e scrittore, altra voce di Radio Aut (che contribuì a co-fondare), Vitale è la voce principale di un nuovo racconto per immagini, tratto dal libro omonimo da lui pubblicato, e ideato insieme a Pietro Orsatti, che ne firma anche la regia. Era di passaggio è il racconto di Peppino nella sua complessità ma anche e soprattutto quello di un gruppo di amici, protagonisti di un decennio straordinario a partire dal 1968. Il documentario tiene assieme la narrazione dei luoghi - a cominciare da Portella della Ginestra - e punta restituire il valore educativo e sociale dell’attività di militanti civili come Danilo Dolci, che nel 1970 a Partinico inaugurò anche la Radio dei Poveri Cristi, prima radio libera in Italia che pochi anni dopo ispirerà la stessa Radio Aut.
Fa nomi e cognomi Salvo Vitale, in 54 minuti di girato che definisce “ricco di particolari inediti e altre testimonianze”.
“Per iniziare le riprese ci siamo autotassati, perciò abbiamo lanciato una campagna di crowfunding con cui speriamo di coprire i costi complessivi di tutte le fasi di lavorazione - dice il regista Pietro Orsatti, che spiega la novità del documentario, probabilmente in uscita in autunno: “Anzitutto, entrano voci ed elementi finora spariti dalla narrazione di Peppino. Raccontiamo poi, con leggerezza e fuori da quel rassicurante ovile di perbenismo legalitario in cui molti hanno cercato di ricondurre quell’esperienza, l’Impastato militante, intellettuale a 360 gradi. Raccontiamo la sua morte, affrontando la questione finora da tanti soltanto accennata del depistaggio e del percorso di giustizia intrapreso dai compagni, prima con Chinnici, poi con Caponnetto. Questo progetto è un omaggio a chi non ha mai mollato e, in particolare, a Salvo. Serve a ribadire in maniera elegante che la memoria non la puoi modificare come ti pare”.
Nelle sue varie tappe, Era di passaggio si sofferma in riva al mare, lungo quei pochi chilometri di strada che congiungono Terrasini a Cinisi, dove 40 anni fa Peppino Impastato venne probabilmente intercettato dai suoi assassini, dopo essersi congedato da Radio Aut. A rievocare quegli ultimi momenti è Salvo Vitale, che gli fu accanto a ogni passo e che con un manipolo di compagni continuò la sua attività anche dopo l’omicidio.
Oggi 74enne, l’amico più grande che ai tempi del liceo, ogni mattina, percorreva in autobus con Peppino il tragitto da Cinisi a Terrasini per andare a scuola, presta i suoi preziosi ricordi a un racconto mai rituale, che svela il valore di quel gruppo di persone, protagoniste di una singolare stagione di lotte civili per affermare il libero pensiero e in difesa dei diritti, contro la mafia e ogni forma di prevaricazione.



A noi della Voce di New York, in attesa del lavoro in uscita, ha concesso un’intervista, che qui di seguito vi proponiamo.

Salvo Vitale, perché ha sentito l’esigenza di dare viva voce a quelle storie e a quegli aneddoti raccolti nel libro Era di passaggio, attraverso la forma del documentario?
“E’ stata un’iniziativa di Pietro Orsatti che in principio mi ha visto un po’ scettico, data la mia vecchia tendenza ad evitare di fare il personaggio e data la mia capacità di saper meglio scrivere che parlare. Poi mi sono reso conto che l’idea non era male, che il racconto attraverso l’immagine può essere più invitante per gli “umani” di oggi, ormai allergici alla parola scritta, e che gli spazi del racconto parlato sono più immediati e in molti casi rendono più lievi le deformazioni causate dal tempo, non essendoci la possibilità di riaggiustare immediatamente ciò che è stato detto”.

Che cosa contiene di nuovo o di diverso il documentario, rispetto alle precedenti pubblicazioni e ai contributi da lei dati per ristabilire la verità su Peppino e su quegli anni di lotte?
“Contiene di più e di meno. Di più nel senso che ho evitato di ripetere quello che ho già scritto, cercando di arricchirlo con particolari inediti e con altre testimonianze, come quella di Faro Di Maggio, compagno rimasto tale dopo più di 40 anni. Di meno nel senso che la grande quantità di registrazioni raccolte ha dovuto essere sintetizzata in poche battute che spesso comportano il rischio di restare in superficie e di rendere spazzatura preziosi momenti di ricordo e di vita”.

Lei definisce Peppino Impastato militante di un’idea e figlio del ’68. Quale pensa sia la chiave per avvicinare la sua figura ai giovani d’oggi, considerato il suo legame con quel particolare contesto storico, sociale e culturale?
“Vecchio problema: i personaggi appartengono al loro tempo o lo trascendono acquistando caratteristiche di universalità? Nel caso di Peppino è chiaro che l’esperienza del ’68 è la chiave di volta per dare un significato alla sua umana vicenda. Ma il ‘68 non è solo l’anno delle occupazioni universitarie, è anche quello delle lotte dei contadini di Punta Raisi in difesa delle loro terre contro l’irresponsabile scelta di un aeroporto in una striscia di terra tra il mare e la montagna. È l’anno in cui prendono corpo e/o si rafforzano le esperienze dei movimenti extraparlamentari, è l’anno in cui Gaetano Badalamenti porta avanti il suo lavoro di alleanze che lo porterà a diventare “capo” della Cupola mafiosa. Insomma un gran fermento di idee legate a una visione del comunismo come obiettivo, a portata di mano, per la costruzione di una società senza disuguaglianze, né giuridiche né economiche, e con l’obiettivo finale della piena realizzazione dell’uomo, con e fuori dal suo rapporto con il lavoro”.

Ancora, lei lo definisce un intellettuale a tutto tondo: come se lo immagina vivere nella società di oggi, in un mondo in cui, oltre alle ideologie, qualcuno dice essersi smarriti anche gli ideali?
“Premetto col dire che gli anni del berlusconismo sono riusciti in un risultato del quale neanche la Chiesa era stata capace, ovvero la criminalizzazione e la demolizione del comunismo, identificato come la fonte di tutti i mali e contrapposto in maniera perdente al capitalismo, specie dopo il crollo del muro di Berlino. Qualcuno ha cercato di attribuire questo merito a papa Wojtyla, ma il suo ruolo di capo religioso è stato a mio parere irrilevante nel crollo di regimi politici che con il comunismo marxista ben poco avevano a che fare e con spiegazioni planetarie ben più complesse”.
Ma torniamo a Peppino: nessuno potrà mai dire cosa sarebbe Peppino oggi, a parte che non lo si consideri un’estensione di se stesso. Potrebbe essere rimasto uno degli ultimi ‘resistenti’ con un piede nell’anarchia e l’altro in Potere al popolo? Mi sembra troppo riduttivo, anche perché la caratteristica più importante di Peppino era quella di comunicare, di costruire il gruppo, di organizzare la lotta, di non fermarsi e chiudersi nel proprio orto, rispetto a un mondo nel quale ci si sente stranieri. A proposito, ho ancora a casa Lo straniero di Camus che Peppino mi aveva prestato, con le sue annotazioni. Il vulcano di idee che aveva Peppino cercava sempre una corretta applicazione del rapporto marxista tra teoria e prassi e della reciproca adeguazione e riadeguazione dei due momenti. Una delle cose che gli sentivo ripetere spesso, a parte le sue sparate di andarsene ‘nei paesi caldi’ era la costruzione, in un suo terreno, di un grande centro di incontro tra i ribelli e i rivoluzionari di tutto il mondo. In ogni caso egli avrebbe continuato a lavorare politicamente: non era uno da starsene con le mani in mano o a leccarsi le ferite”.

Sono trascorsi 40 anni dall’omicidio, ne sono occorsi 24 per arrivare alla condanna di Badalamenti, e ancora permangono delle ombre. Anni difficili per fare emergere una verità scomoda, per ripristinare la stessa figura di Peppino. A distanza di tutto questo tempo, pensa che il vostro impegno, da Radio Aut alle altre lotte con Peppino e i compagni, sia valso la pena?
“È vero. Malgrado il processo sia iniziato nel 1996, sino al 2000, cioè l’anno in cui uscì il film I cento passi, eravamo rimasti davvero in pochi a cercare la condanna dell’assassino, al di là dei continui risultati di ‘omicidio ad opera di ignoti’. Chiaro che senza questo minimo di ‘zoccolo duro’ non ci sarebbe stato né il processo né il film, ma il contributo di questo nel far conoscere e amare Peppino in tutto il mondo è stato innegabile. Si può discutere su quanto aderente sia il racconto rispetto alla realtà, ma non sull’impatto che esso ha avuto e continua ad avere presso i giovani, che vedono Peppino come uno di loro, si identificano nella figura del ribelle, anche con la propria famiglia, nelle esperienze di liberazione sessuale del movimento del ’77, nell’uso nuovo di uno strumento come la radio per lottare contro la mafia, soprattutto attraverso la satira e la ridicolizzazione di tabù intoccabili.
Certo, va detto senza illusioni, i cambiamenti sono lentissimi, spesso richiedono decenni se non secoli, altre volte sembrano segnare recessioni che risucchiano in poco tempo quanto conquistato in lunghi anni. Vale sempre la pena fare qualcosa, mettersi in gioco, dare il proprio contribuito al cambiamento della società in cui viviamo, almeno per quelli che ci vivono male: ‘A che serve vivere se non si ha il coraggio di lottare?’ diceva Giuseppe Fava”.

Se potesse condensare in un messaggio o anche in un’immagine l’esperienza di quel periodo, quale ricordo vorrebbe rimanesse a futura memoria di Peppino Impastato e di quel gruppo di amici tra quanti vedranno o leggeranno la loro storia?
“Un messaggio? Tornare ad incontrarsi e discutere, uscire dalla solitudine in cui ci hanno condannato a vivere i mass media, riscoprire la fisicità degli odori, dei sapori, degli sguardi, dei suoni e costruire su queste sensazioni, su questi ‘brividi’ il proprio essere, al di là della vacua asetticità del cellulare, senza subire o lasciarsi irretire da modelli imposti dagli altri e proposti come l’unica scelta di vita con il fine della sopravvivenza. E quindi vivere, non sopravvivere, essere se stessi, non quello che gli altri vogliono che tu debba essere. Insomma nulla di nuovo rispetto a quanto ho insegnato per quarant’anni”.



Tratto da: lavocedinewyork.com

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