di Salvo Vitale
Il cannibalismo
Il 2 novembre dovunque è il giorno della commemorazione dei defunti. In Sicilia è la “festa dei morti”. Per comprendere il significato profondo di questa festa, dobbiamo rifarci alla sua forma tradizionale. I regali che ricevevano i bambini erano il pupo di zucchero e altre leccornie. Cibo, dunque. Il mangiare ha un rapporto stretto con la celebrazione della morte. Si pensi al “cunsulu”, il pasto offerto ai familiari del defunto da parenti e amici. Nel giorno dei morti, i nostri nonni andavano a consumare un pasto presso la tomba dei propri defunti, senza sapere il perché. In America, dopo il funerale si va al ristorante a consumare un banchetto. Non si tratta di una stranezza inventata da noi siciliani mangioni, ma della persistenza di antichissime usanze modificatesi nel tempo e di cui si è perso il significato. Gli antichi romani offrivano libagioni in onore dei defunti.
Che senso ha tutto ciò?
Per capirlo dobbiamo soffermarci su di un indizio significativo. Nel giorno della commemorazione dei defunti, nell'antica Roma si consumava un pane a forma umana. Ma anche il pupo di zucchero ha una forma umana. Si tratta semplicemente della trasformazione e simbolizzazione di preistorici culti cannibalistici, quando i membri del clan mangiavano parti del corpo dei morti per conservarne il “mana” (la sua “vis magica”, che solo approssimativamente possiamo tradurre con “anima”). In tal modo il defunto continuava a vivere nel clan. Col passare del tempo, per effetto della civilizzazione, non si mangia più il defunto, ma qualcosa che lo rappresenta simbolicamente.
Anche il rito cristiano dell'eucaristia ha un collegamento con questa tradizione: il pane e il vino che noi consumiamo nel banchetto eucaristico sono in simbolo il corpo e il sangue di Cristo.
La festa dei morti pertanto non va conservata solo per difendere una nostra tradizione, ma perché è carica di significati culturali che ci riportano indietro nel tempo fino alla preistoria. Dimenticarla e sostituirla con altre usanze significherebbe spezzare quel filo con il lontano passato che solo in Sicilia si è conservato, anche se non se ne ha più consapevolezza. (Piero Riccobono)
La festa e i bambini
La commemorazione dei morti in Sicilia è una “festa”, e già questo basta a stabilire un rapporto con la morte che non è solo triste, tragico e legato alla loro assenza, ma è invece un momento di presenza, quasi di contatto, quasi che per quel giorno tornassero a vivere e a stare con noi. Ma è anche una festa dedicata ai bambini. Sono loro che lasciano (lasciavano, o lasciavamo) le scarpe dietro la porta in attesa che i morti portino di notte i regali. Una volta erano castagne, noccioline, calia, cioè ceci abbrustoliti, e biscotti, in particolare “i mustazzoli”, fatti con farina e miele di fichi assieme alle “sfinci di prescia”, frittelline a forma di e minuscola, imbevute di miele e mandorle tritate, crozzi 'i mortu (ossa di morto) o i pupatelli ripieni di mandorle tostate, i taralli (ciambelle rivestite di glassa zuccherata), i nucatoli e i tetù bianchi e marroni, i primi velati di zucchero, i secondi di polvere di cacao, frutta secca (fichi secchi e passuluna), caramelle, cioccolatini, il tutto a contorno di “u cannistru”, un cesto ricolmo di primizie di stagione, e altri dolciumi come la “frutta di martorana”, riproduzione in marzapane dei vari frutti, oltre i “pupi ri zuccaru” statuette di zucchero dipinte, ritraenti figure religiose, o i paladini di Francia. Oggi i regali sono costose macchinine, videogiochi e strumenti di tecnologia avanzata.
E’ bellissima questa idea dei morti che passano, molto più silenziosi e più discreti della befana o di babbo natale e che esprimono la loro vicinanza ai bambini. Ne viene fuori un rapporto non fondato sulla paura della morte o del morto, ma sull’amore, sul ricordo, direi quella che Foscolo chiama “corrispondenza d’amorosi sensi”.
Il richiamo inevitabile è alla tradizione religiosa romana dei Lari (la parola “lar” in latino significa “focolare”, ma è possibile anche una derivazione etrusca, dove “lar” significa “padre”) che erano gli spiriti degli antenati, dei parenti defunti, a protezione della famiglia. I “lares familiares” erano rappresentati da un “sigillum”, una e più statuette in terracotta che avevano il loro posto nell’angolo più remoto della casa, il “lararium” o “penitus”, da cui deriva l’altro nome di Penati, anche essi numi a tutela del focolare domestico e della prosperità della famiglia. Si potrebbe trovare un collegamento con la preesistente abitudine di seppellire i morti in casa. Il Cristianesimo ha poi ubicato le anime dei morti in paradiso, purgatorio inferno, ma la notte tra il primo e il due novembre i morti hanno una sorta di licenza di lasciare il loro posto per portare i regali ai loro piccoli parenti vivi. Non si tratta di zombies, ma dei volti dolcissimi delle persone che abbiamo amato e che ci hanno amato, il cui ricordo si può leggere in una foto, in un quadro, in una traccia che diventa icona alla quale accendere una luce, un lumino.
Ricordo una notte, potevo avere cinque anni, passata ad occhi aperti, a vegliare per vedere questo passaggio dei morti e della mia grande delusione nello scoprire che “i morti” erano mia madre e mio padre.
La festa dei morti
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