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niceta angelo tg3Interrogazione parlamentare su Niceta, la replica dei familiari
di Manfredo Gennaro*

Angelo Niceta, oggi al ventiduesimo giorno di sciopero della fame, è il Testimone di Giustizia palermitano cui, nonostante la richiesta proveniente proprio dalla Dda di Palermo nelle persone dei pubblici ministeri Antonino Di Matteo e Pierangelo Padova di inserimento nel programma “speciali misure di protezione” del Ministero dell’Interno in qualità di Testimone, è stato finora negato il riconoscimento di tale status: quando Angelo e la sua famiglia già si trovavano nella località segreta, gli veniva comunicato che la Commissione Centrale del Ministero degli Interni aveva invece deliberato per lui lo status di “Collaboratore”, senza fornire motivazioni di alcun tipo, sebbene Angelo sia incensurato, estraneo all’organizzazione mafiosa e non abbia procedimenti in corso per fatti di mafia, anzi sia vittima della mafia.
Ma qual è il discrimine, il limen, che permette di distinguere un Testimone di Giustizia da un Collaboratore?
Esaminando l’evoluzione della legislazione antimafia a partire dal decreto legge n. 8 del 1991, la prima norma a tipizzare tale figura voluta anzitutto da Giovanni Falcone, e transitando per lo snodo decisivo della Legge n. 45 del 2001, è possibile tracciare una linea di tendenza coerente ed inequivocabile.
Proprio la Legge n. 45 del 2001, attualmente in vigore, distingue nettamente le due figure – Testimone e Collaboratore – prevedendo per esse due regimi giuridici differenziati di trattamento. L’art. 16-bis definisce chiaramente “Testimoni di Giustizia” coloro che "assumono rispetto al fatto o ai fatti delittuosi in ordine ai quali rendono le dichiarazioni esclusivamente la qualità di persona offesa dal reato, ovvero di persona informata sui fatti o di testimone, purchè nei loro confronti non sia stata disposta una misura di prevenzione […]. Tali soggetti sono, ai fini del presente decreto, denominati ‘testimoni di giustizia'". “Collaboratori di Giustizia”, invece, sono coloro che, interni all’organizzazione criminale, forniscono informazioni allo Stato "in cambio di benefici processuali, penali e penitenziari, della protezione e del sostegno economico per sé e per i propri famigliari". I Collaboratori, infatti, a differenza dei Testimoni, sottoscrivono un vero e proprio “contratto” con lo Stato che sono tenuti a rispettare, e la cui inosservanza è disciplinata da sanzioni.
Analizzando in termini più ampi lo spettro normativo che va dalla Legge del 2001 attualmente in vigore alla Proposta di Legge sullo stesso tema n. 3500 del 2015, approvata in prima lettura alla Camera e attualmente all’esame del Senato, si può chiaramente individuare un’idea regolatrice coerente a fondamento della figura giuridica del Testimone di Giustizia e del peculiare trattamento ad essa riservato.
Il Testimone di Giustizia, ossia il cittadino estraneo ad organizzazioni criminali che senza trarre benefici rende dichiarazioni su uno o più fatti di mafia, o di eversione, all’autorità giudiziaria, è esposto proprio in virtù del suo gesto di rottura dell’omertà ad un potenziale sconvolgimento della propria esistenza così come di quella dei propri familiari; lo Stato, cui si è affidato, non si limita a garantire la sola protezione dell’incolumità personale del Testimone e dei suoi familiari ma si fa carico con appositi strumenti di sostegno pensati ad hoc anche di tutti gli altri aspetti esistenziali a rischio, dall’isolamento sociale alle quasi certe difficoltà economiche e lavorative.
Nella versione della Proposta di Legge all’esame del Senato questa impostazione viene rafforzata, indicando come soluzione privilegiata che il Testimone possa essere protetto e salvaguardato a trecentosessanta gradi restando nel luogo di residenza, riducendo ad extrema ratio i complicati trasferimenti in “località” segrete, con conseguente sradicamento talvolta di un’intera famiglia dal proprio ambiente.
Una volta chiarito che la Legge stessa definisce il Testimone di Giustizia come colui che, estraneo all’organizzazione criminale, fornisce il suo apporto come persona offesa o come persona informata dei fatti o come testimone, appare evidente che Angelo Niceta è a tutti gli effetti un Testimone di Giustizia.
Né può costituire un motivo giuridicamente fondato del mancato riconoscimento del suo ruolo naturale di Testimone la mera parentela o vicinanza ambientale con soggetti appartenenti all’organizzazione mafiosa, o coinvolti in fatti di mafia. Basti citare, a titolo esemplificativo, la figura - esemplare nel suo coraggio - di Piera Aiello, vedova del boss mafioso Nicolò Atria e Testimone di Giustizia.
Non possono non destare forti perplessità, oltre a quella gravissima presa nei riguardi di Angelo Niceta e mai motivata, molte altre deliberazioni della Commissione Centrale del Ministero dell’Interno, che hanno avuto il portato di attribuire a soggetti per cui era stato chiesto dalla Magistratura lo status di Testimone di Giustizia quello di Collaboratore.
In uno Stato di Diritto Costituzionale, qual è l’Italia, esiste tuttavia il principio giuridico della gerarchia delle fonti del diritto, per cui i provvedimenti amministrativi sono comunque subordinati alla legge ordinaria, e la legge ordinaria alla Costituzione; devono inoltre essere motivati in modo logico e trasparente ed essere facilmente impugnabili. A maggior ragione se si tratta di decisioni concernenti un tema cruciale quale le politiche di lotta alla mafia, che dovrebbero essere costantemente sotto la lente d’ingrandimento della stampa libera (purtroppo sempre più introvabile) e dell’opinione pubblica.
Va infine sottolineata l’assoluta incomparabilità dell’apporto fornito da Angelo Niceta con la figura più tradizionale, anch’essa fondamentale e da sostenere, del Testimone il cui apporto si limita ad un solo fatto o pochi fatti circoscritti (un’estorsione, un omicidio, e via elencando).
Le dichiarazioni di Angelo Niceta si estendono lungo un periodo che va dalla prima metà degli anni ’80 ad oggi, e riguardano una moltitudine, difficilmente riassumibile per l’ampiezza, di fatti e situazioni al centro dei sistemi criminali politico-mafiosi più elevati.
Esse chiamano in causa senza parafrasi, tra l’altro, gli attuali vertici di Cosa Nostra, ponendo l’accento sull’equilibrio stabilitosi dopo la “trattativa” basato sull’asse Messina Denaro-Guttadauro; chiamano in causa gli affari nell’ordine delle centinaia di milioni di euro legati all’importazione di stupefacenti all’ombra dei mandamenti di Brancaccio e Bagheria; chiamano in causa collusioni a tutti i livelli, mondo “marcio” della borghesia mafiosa palermitana alle collusioni all’interno del settore delle “Misure di prevenzione”.
Sarebbe più esatto, quindi, definire Angelo Niceta, oltre che tecnicamente “Testimone di Giustizia”, “Supertestimone”, e considerare il suo apporto al livello di quel “gioco grande del potere” di cui ha parlato in più occasioni il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato.
Angelo Niceta è giunto oggi al ventiduesimo giorno di sciopero della fame, a crescente rischio della vita e di seri danni per la sua salute. Il tempo perché la parte “sana” delle Istituzioni, in cui Angelo continua ad aver fiducia, intervenga senza ulteriore indugio ed in modo determinato a rispondere ad una vicenda letteralmente scandalosa sta, purtroppo, per scadere. Con ciò che ne potrebbe conseguire per la stessa credibilità della volontà dello Stato di combattere senza soluzione di continuità la mafia e l’enorme “zona grigia” che all’ombra delle trattative, in questi ultimi venticinque anni, a partire dal “Colpo di Stato” stragista del ’92-’93, è cresciuta a dismisura fino a diventare quasi onnipervasiva.
A questo punto, in considerazione della gravità e urgenza della situazione, auspichiamo che l’iniziativa passi alla Procura della Repubblica di Palermo, forse l’unica che può intervenire per sbloccare la situazione.

* Comitato per Angelo Niceta

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