di Luciano Armeli Iapichino
23 maggio 2017. Oggi è il giorno di Giovanni Falcone e della strage di Capaci. Oggi è il giorno della commemorazione di quell’episodio devastante per gli italiani e per le moderne democrazie. Ma commemorazione da parte di chi? E, soprattutto, per che cosa? In quale nazione? Con quale coscienza? Che cosa abbiamo ereditato dalle stragi del ’92 ai tempi dell’Italia del G7 di Taormina?
Abbiamo ereditato, fuggendo da pericolose generalizzazioni, un’oggettiva e reiterata frantumazione della fiducia nelle Istituzioni, la radicalizzazione di un immutato disorientamento generale connesso alla diffidenza verso una Repubblica di Giusti.
E questa è una prima e indiscutibile verità oltre ogni fuorviante e vile depistaggio.
Oggi, come allora, i segreti di Stato, la “ragion di Stato”, continuano a demolire, senza indietreggiamento alcuno e a testa alta, la dignità di un popolo dilaniato da una congenita insicurezza dentro una nave che imbarca zavorre istituzionali, virtuosi dell’ipocrisia da passarella, paladini della corruzione e che perde, pari tempo, migliaia di giovani disperati in fuga oltreconfine unitamente alla speranza in quell’idea di civiltà giusta ed equa, causa del martirio di Capaci e di via d’Amelio.
La cancrena di palazzo, gravida di pomposità e di scomodi silenzi, in cui gli onesti pezzi dello Stato non affrontano il germe della mafia nascondendosi dietro il paravento degli scaricabarili, dell’incompetenza operativa, della convenienza e del compromesso, della debolezza umana e civile della coscienza, è l’unica realtà che ci è rimasta da quelle stragi che, a distanza di venticinque anni, continuano a imbarazzare come scheletri nudi seduti sugli scranni istituzionali.
Il sistema masso-mafioso si è autotutelato e continua a farlo nell'impaccio, spesso, di una magistratura, nella migliore delle ipotesi, ostacolata nell’esercizio delle sue funzioni, e nell’impotenza delle forze dell’ordine. Le stesse che sussurrano a certi familiari vittime di mafia, in attesa di verità e giustizia, dentro quella divisa spesso “legata” e mortificata, parole di conforto e di piena solidarietà. Ecco cosa è rimasto di quel 23 maggio 1992!
È rimasta l’evidenza dell’impotenza.
È rimasta, nella nostra moderna democrazia, l’imbarazzate cecità istituzionale dinanzi a certi crimini talmente chiari da essere accolti con sorrisini, “latitanze” d’ufficio e occhi bassi. E i curricula di pezzi dello Stato parlano altrettanto chiaramente.Una nazione, la nostra, che è prima al mondo per artifizio retorico nella solennità delle celebrazioni e, tra le ultime, per lotta alla mafia (non conta il contenuto del discorso ma dovrebbe contare l’ossatura etica di chi lo pronunzia).
Una nazione, la nostra, in cui si militarizza la graziosa perla di Taormina in occasione del G7 mentre, a poche decine di chilometri, a Barcellona Pozzo di Gotto, si lasciano morire nell’impotenza istituzionale, due anziani genitori, Angela e Gino Manca, avvelenati nel giardino di casa e rei di lottare per la verità di un figlio martirizzato insieme alla sua dignità da tredici lunghissimi anni, Attilio Manca, urologo.
Una nazione in cui una sorella, caso Cucchi, deve “urlare” oltre i limiti consentiti dalla natura umana, oltre la dignità, oltre il diritto, oltre i confini della civiltà, per disinnescare l’aberrante sporcizia dell’omertà.
Una nazione, la nostra, in cui i giornalisti, quelli liberi, che smascherano con l’occhio dentro le mura della più scellerata corruzione, la miseria di un potere disinteressato alle necessità del popolo, si contano sulle dita di una mano e nelle aule di tribunale.
Una nazione in cui tutto è a rilento, concretizzazione della giustizia in primis.
Una nazione, la nostra, in cui l’apparato politico, quello delle larghe intese gestito dai veterani della prima repubblica, guarda con diffidenza e odio il processo della trattativa Stato-mafia portato avanti, tra mille difficoltà ed ex professo, dal Dott. Nino Di Matteo. Quello in cui, dopo i martiri dei primi anni novanta, vuole vederci chiaro su una probabile resa condizionata di presunti “vigliacchi” delle Istituzioni timorosi della loro condizione esistenziale, politica e di potere. E intanto si erano accartocciate sull’asfalto le Fiat Croma dei giudici e incenerito i corpi degli uomini di scorta. E la Torre dei Pulci franava su due sorelle dormienti e i loro genitori.
Come a dire mors tua vita mea!
Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, il loro sacrificio e quello dei loro uomini di scorta è un lascito che andrebbe interpretato pienamente e coerentemente ogni giorno e, se è lecito, dalle cariche Istituzionali preferibilmente avulso dalla retorica degli amanuensi di palazzo. Andrebbe applicato in ogni sfera pubblica, negli uffici ministeriali, in quelli di pubblica sicurezza sino a quelli dei dirigenti scolastici.
In una nazione in cui il problema parlamentare è anche la limitazione delle intercettazioni o in cui i condannati per mafia in via definitiva tengono lezioni ex cathedra;
in una nazione in cui il fronte dell’antimafia riesce a suddividere l’atomo per l’interpretazione del ruolo delle primedonne e la democrazia è stata inumata dal pianificato, subdolo immobilismo elettorale da un lato, e dal terrorismo di certa disinformazione di parte dall’altro, al futuro delle nuove generazioni, di certo, non basteranno le belle giornate in piazza Magione a Palermo per il 23 maggio.
Tranquilli, le celebrazioni stanno per finire. L'avvenire anche.
Domani è un altro giorno.
Foto © Franco Zecchin
Sul sacrificio di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli uomini della scorta
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