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lo giudice maria rita 2di Donatella D'Acapito
Si vergognava del cognome che portava. No, non se ne vergognava, anzi: ne andava fiera. Due tesi discordanti per una sola tragedia, quella che ha investito Maria Rita Lo Giudice, venticinquenne reggina che domenica 2 aprile, poco prima delle sette del mattino, ha scelto -almeno così sembra- di saltare giù dal secondo piano di casa per porre fine alla sua vita.
Ma cerchiamo di ricostruire i fatti.
Maria Rita era una ragazza come molte della sua età, con un fidanzato e gli amici, una laurea a pieni voti in Economia conseguita a ottobre scorso, l’iscrizione per quella magistrale all’università Mediterranea di Reggio e un viaggio fatto in febbraio a Bruxelles per visitare sia la sede della Banca Centrale che gli uffici della Commissione Europea.
A distinguerla era il cognome, quel Lo Giudice che a Reggio Calabria è spesso associato alla ‘ndrangheta. Certo, più del padre Giovanni, in carcere perché ritenuto uno degli elementi di spicco dell’omonima cosca, contavano nelle dinamiche mafiose gli zii Luciano e Nino. Quest’ultimo, detto “Nino il nano”, è diventato da anni un collaboratore di giustizia e, con le sue dichiarazioni, sembra stia svelando i rapporti fra apparati dello Stato, massoneria e ‘ndrangheta.
Quando domenica mattina i carabinieri hanno cominciato a indagare sull’accaduto, hanno raccolto subito le testimonianze del fidanzato e degli amici ed è proprio dalle loro parole che sarebbe emerso il “malessere per la sua situazione familiare” che Maria Rita provava. Una tesi, quella del peso del cognome, che la famiglia rigetta e che per questo ha portato alla richiesta di un esame autoptico sul corpo della giovane. La mamma, infatti, sostiene che da un po’ di tempo la figlia era cambiata. Soprattutto, ha riferito al suo legale, l’avvocato Renato Russo, di aver visto Maria Rita “alterata” la sera prima del suicidio, proprio lei che non beveva né fumava e che mai avrebbe fatto uso di sostanze stupefacenti. Non solo: la madre avrebbe anche riferito al suo avvocato che Maria Rita si teneva costantemente informata sulle vicende giudiziarie del padre.
Maria Rita se ne è andata senza lasciare nulla di scritto che potesse spiegare il suo gesto. E in questo vulnus che accompagna il groviglio dell’animo umano, che nei giovani è ancora più complicato, si aprono domande e interrogativi. Perché se alla base del gesto di Maria Rita ci sono vicende personali o una fortuita casualità che ancora non è emersa, a restare saranno la tragedia e il dolore privato che non distinguono fra cognomi o famiglie più o meno ingombranti. Resteranno i dubbi per quanto si è capito o meno di silenzi, sguardi, atteggiamenti. Quelli per le volte che non si è voluto vedere, e quelli per ciò che si è fatto, non si è fatto o non si è riusciti a fare.
Ma se la tragedia di Maria Rita nasconde davvero il sentirsi “strappata dentro” di una ragazza che ha cercato di cambiare il suo destino ma è rimasta inchiodata al suo cognome, allora la cerchia di quanti volenti o nolenti hanno inciso si allarga. E si allarga di molto, così come ha sottolineato il procuratore capo della Dda di Reggio Federico Cafiero de Raho: “Quello che è successo deve toccare la coscienza di tutti, siamo tutti responsabili. Se c’è una ragazza che si è fatta strada nella vita scolastica per la propria onestà, ha conseguito una laurea che è strumento per sottrarsi alla famiglia di ‘ndrangheta di cui fa parte e non siamo capaci di integrarla, abbiamo perso tutti quanti”.
Abbiamo visto donne disconosciute, uccise o fatte sparire dalle loro stesse famiglie – e in quella dei Lo Giudice, ad esempio, figurano anche casi di lupara bianca a danno di due zie della ragazza. Ma in questo caso a giocare un ruolo decisivo non sarebbe stata la famiglia ma un contesto sociale complessivo che non ha saputo dare fiducia a una giovane che voleva essere semplicemente Maria Rita, una ragazza di venticinque anni come tante. Come se dovesse rispondere alla legge del contrappasso, quel cognome che in città -e non solo- avrà fruttato favori e vantaggi, si è trasformato nella condanna per l’impossibilità di credere in qualcosa di diverso rispetto alla narrazione che quello stesso cognome si porta dietro.
Il Prefetto Michele di Bari nei giorni scorsi ha convocato una riunione straordinaria del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica sul disagio sociale che vivono alcuni giovani appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta. L’obiettivo, si legge in una nota, è quello di “favorire modalità operative coordinate a tutela e a sostegno di minori e giovani adulti che, desiderosi di un cambiamento, vivono situazioni di disagio e difficoltà per un’effettiva integrazione nella società civile”.
Appunto: una effettiva integrazione nella società civile. La legalità non è un valore trasmesso per nascita, ma è un valore che necessita di essere vissuto. Basti pensare al caso di Rita Atria per vedere che è così. Certo: si potrà obiettare che Rita aveva fatto una scelta molto decisa e coraggiosa diventando una testimone di giustizia. Ma anche lei, che voleva cambiare vita, una volta morto Paolo Borsellino, il suo unico angelo custode, si è sentita sola a tal punto da arrivare al suicidio.
Non risulta che Maria Rita abbia mai palesato una presa di distanza ufficiale dalla sua famiglia. Può sembrare facile adesso appellarsi al suo interesse per le vicende giudiziarie del padre per dimostrare il contrario, quando in realtà non si sa di che natura fosse quell’interesse. E forse, col pudore di figlia, avrà trovato più semplice manifestare il suo disagio agli amici che alla madre. Difficile stabilirlo ora.
Comunque sia andata, quello che rimane di questa storia è l’amaro per un’altra giovane vita che non ha scelto in che famiglia nascere e che, magari, per porre rimedio a quella nascita non ha trovato soluzione migliore che il sottrarsi definitivamente alla vita.
Tutto questo mentre quella “effettiva integrazione nella società civile” fatica a prendere forma. Così, in attesa che arrivi l’esito delle indagini, aggiungere qualcosa in più o dire qualcosa in meno non aiuterebbe certo a rendere giustizia a Maria Rita e alla sua triste storia.

Tratto da: liberainformazione.org

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