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manca attilio web 00di Eleonora Urzì Mondo
Sono trascorsi tredici anni (e un mese, per l’esattezza) e il suo ricordo sta sempre li: un grido di giustizia che passa dalla voce dei suoi familiari e una vita spezzata per sempre e violata ogni giorno, ogni giorno nel quale la verità stenta a venire fuori.

Attilio Manca è morto nel 2004, la notte tra l’11 e il 12 febbraio; il corpo è stato trovato esanime nel suo appartamento di Viterbo, città in cui il medico barcellonese lavorava e viveva. Ma che si trattasse di un suicidio, un’overdose, un mix letale – come l’evidenza avrebbe imposto di credere – i congiunti dell’urologo non lo hanno mai creduto. C’era di più, doveva esserci di più. E se già è difficile accettare che un figlio, un fratello, butti via la propria esistenza, lo è ancora di più se i dettagli negano quest’ipotesi: un foro sul braccio sinistro per iniettare la dose che lo avrebbe condotto alla morte, tanto per cominciare. A lui, un mancino che con la destra, forse, sapeva a malapena reggere le posate. Una siringa usata per iniettare il siero letale sulla quale non appare nessuna impronta digitale. Inimmaginabile sia stata pulita attentamente da un tossico in piena botta, prima che spirasse. E poi, perché?

E quella telefonata strana fatta alla madre, scomparsa dai tabulati telefonici, come in un mistero, fitto, torbido e indecente, che fa rima con trattativa. Ammettere che Attilio possa essere stato ucciso significherebbe ammettere anche che quella tra lo Stato e la Mafia è una relazione davvero esistita, realmente concretizzatasi in un accordo tra le parti che ha avuto i suoi effetti e, ovviamente, le sue vittime. Tra di loro, proprio il professionista siciliano, la cui colpa sarebbe stata, secondo l’ipotesi sostenuta da famiglia e legali, quella di aver operato a Marsiglia un uomo, ma non uno qualunque: un latitante. Il latitante: Bernardo Provenzano. Manca lo avrebbe riconosciuto, o avrebbe potuto, e questo si sarebbe dimostrato prerequisito essenziale per toglierlo di mezzo.

Sono passati anni da allora, anni nei quali l’omertà e il silenzio sono rimasti come una cappa ad opprimere l’aria di quella Barcellona in cui la famiglia del medico ancora vive, affrontando la quotidianità in quella che per molto tempo è stata roccaforte di fuggiaschi e capimafia. Del capomafia. Du zu Binnu. Anche tra gli ex colleghi del nosocomio laziale insiste una certa ritrosia: parlare, specie davanti ad una telecamera accesa, non è una cosa che vada di fare. Antipatia verso un morto? O paura? Tirate voi le somme. Ma chi pensava che sarebbe bastata la spiegazione ufficiale, la descrizione della scena trovata dagli inquirenti, un racconto fine a se stesso, un colpo di spugna ai tabulati, per chiudere la questione, si sbagliava di grosso. Negli anni, diversi collaboratori di giustizia hanno contribuito a comporre un puzzle di eventi e circostanze che portano al presunto omicidio di mafia.

Omicidio di Stato – perché le cose vanno chiamate col loro nome -. Nel 2016, la Gazzetta del Sud ha pubblicato le dichiarazioni bomba rese l’anno prima dal pentito Carmelo D’Amico, ex capo dell’ala militare di Cosa Nostra a Barcellona: “Poco tempo dopo la morte di Attilio Manca, incontrai Salvatore Rugolo, fratello di Venerina e cognato di Pippo Gullotti (condannato a 30 anni quale mandante dell’omicidio di Beppe Alfano, ndr). Lo incontrai a Barcellona, presso un bar […] Una volta usciti da quel bar Rugolo mi disse che ce l’aveva a morte con l’avvocato Saro Cattafi perché ‘aveva fatto ammazzare’ Attilio Manca, suo caro amico. In quell’occasione Rugolo mi disse che un soggetto non meglio precisato, un Generale dei Carabinieri, amico del Cattafi, vicino e collegato agli ambienti della ‘Corda Fratres’, aveva chiesto a Cattafi di mettere in contatto Provenzano, che aveva bisogno urgente di cure mediche alla prostata, con l’urologo Attilio Manca, cosa che Cattafi aveva fatto”.

Nel 2016, un’altra figura chiave, Giuseppe Campo, attualmente in carcere per associazione mafiosa, avrebbe scritto ad uno dei due legali della famiglia Manca, l’ex pm Antonino Ingroia – che affianca il collega Fabio Repici che dalla prima ora segue il caso – chiedendogli un incontro per raccontare “cose importanti sulla scomparsa di Attilio Manca”, come riporta antimafiaduemila. “Lui ha detto di sapere che si trattava di un omicidio, non di un suicidio per overdose, come accreditato in tutti questi anni dagli inquirenti di Viterbo. Sapeva che questa morte era collegata col caso Provenzano e che questa verità aveva cercato di consegnare più volte alla magistratura, ma inspiegabilmente non era mai stato interrogato”, prosegue Ingroia che aggiunge un dettaglio inquietante: “Il pentito mi ha detto di aver tentato in tutti i modi di fare conoscere queste cose e di aver mandato delle lettere alla magistratura: nessuno gli ha dato ascolto. Solo adesso, dopo che l’ho incontrato, la magistratura di Messina mi risulta che sia andata finalmente a sentirlo”.

Tredici anni, tredici anni di processi, di inchieste giornalistiche, di tour in giro per l’Italia a raccontare una storia perché il coro di voci che chiedono verità diventi sempre più ricco. Ma tredici anni di lotta sfiniscono e fanno perdere la fiducia: “Dopo tutti questi anni inizia a crollare”, ha affermato in un’intervista rilasciata a chi scrive, lo scorso anno, la signora Angela Gentile, madre di Attilio Manca. “Però credo nella forza della verità: mio figlio è stato ammazzato, l’ho capito subito. Sapevo che era un omicidio di mafia, questo mi ha dato la forza di andare avanti. Abbiamo capito da alcuni personaggi barcellonesi, che evidentemente cercavano di depistare, che qualcosa c’era. Abbiamo depositato subito (dopo dieci giorni dalla morte) una memoria alla Procura di Viterbo facendo i nomi di alcuni barcellonesi. Alla pista Provenzano siamo arrivati un anno dopo”.

Una vicenda caratterizzata da grandi paradossi, il più grande è sempre lei a raccontarlo, la signora dal viso provato e gli occhi furenti: “Non siamo mai stati sentiti da alcuna istituzione. Ai servizi segreti abbiamo sempre pensato per via della telefonata sparita. E ne abbiamo avuto conferma dalle parole di D’Amico, che ha parlato di servizi deviati. Molti vertici istituzionali dovrebbero battersi il petto, ma non lo faranno mai perché quando si tratta di un omidicio in cui c’è lo Stato è difficile arrivare alla verità ma non impossibile. Io ci spero e ci credo finché vivo”. Oltre alla Procura di Viterbo – che da anni prova ad archiviare il caso – adesso anche la Procura Distrettuale Antimafia di Roma si sta muovendo per analizzare i fatti, aprendo un fascicolo per omicidio contro ignoti “confermando che si ipotizza una morte violenta maturata in ambito mafioso”, illustra l’avvocato Ingroia.

Ancora battaglie da combattere per tenere alto il nome di un figlio che si è cercato di infangare in ogni modo possibile; un dolore, quello di una famiglia, che non si cancellerà mai e a cui si può offrire solo un riscatto, la verità, quella che ad oggi pare si stia negando con forza, uccidendo Attilio ogni volta che ci si gira dall’altra parte.

“Ci mancano le ultime 30 ore di vita di mio figlio: dov’è stato? Cos’ha fatto? Ha visitato Provenzano per l’ultima volta? Non lo sapremo mai perché nessuno ha voluto indagare a riguardo”.

Tratto da: lecodelsud.it

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