di Rino Giacalone
Quella di Mauro Rostagno è la storia di un giornalista ucciso in Sicilia che ricalca altre storie, altre storie di giornalisti morti ammazzati. Morti ammazzati da mafie che di certi coraggiosi giornalisti avevano paura. Quando i boss uccidono in questo caso non lo fanno mai per ostentare la loro potenza ma semmai la loro paura. Un giornalista è sempre fastidioso per il potere e la criminalità e lo è ancora di più quando non è più un testimone asettico, ma un protagonista attivo delle vicende che racconta. Sono le parole di un articolo appena pubblicato su Libera Informazione da Lorenzo Frigerio e dedicate ad un altro giornalista morto ammazzato a Napoli, Giancarlo Siani. Possono essere vere anche per Mauro Rostagno.
Fu questa la ragione che portò i killer quel 26 settembre 1988 a Lenzi, a Valderice, provincia di Trapani, terra siciliana. I boss, i capi mafia furono spaventati di chissà o cosa sarebbe diventato Rostagno se fosse rimasto in vita, a vedersi imbiancare la barba in questa terra, come lui desiderava fare. Lo scenario del delitto di Mauro Rostagno – come hanno appena ieri sera ricordato a Valderice una serie di associazione come Ciao Mauro, Libera, Articolo 21, assieme al Comune di Valderice – dopo tanti anni è venuto fuori grazie al lavoro di un paio di magistrati, di alcuni giudici e di un pugno di investigatori della Squadra Mobile di Trapani. Ci sono voluti anni per arrivare alla verità come recita il ritornello della canzone “Anni anni anni” di Paolo Conte e che Mauro Rostagno aveva scelto quale colonna sonora della trasmissione che però mai riuscì a mandare in onda per quei killer che lo aspettavano nelle campagne di Lenzi il 26 settembre 1988. Ci vogliono anni per capire le cose. La mafia non voleva uccidere solo il giornalista, una voce fastidiosa per Cosa nostra, ma voleva mettere il silenziatore alla vita di un territorio. E così in città a Trapani dopo una prima iniziale indignazione, la morte di Rostagno finì quasi dimenticata, infangata, calpestata e frattanto nella terra che è stata l’ultimo suo capitolo di vita il potere della mafia borghese ha ripreso vigore per arrivare ad oggi, inabissata ma potente, circondata da una massoneria sfrontata e arrogante, che oggi sta alimentando una stagione di veleni e bugie destinata ai nemici giurati, ovunque essi si trovino. La sentenza che ha condannato all’ergastolo i mafiosi tra gli eccellenti di Cosa nostra trapanese, Vincenzo Virga e Vito Mazzara, non ha scritto pagine di storia, ma pagine di grande attualità e per questa ragione non sono stati pochi che questa sentenza l’hanno presa male, non per l’ergastolo inflitto ai due capi mafia ma per quello che è scritto in quelle 3 mila pagine.
Le motivazioni della sentenza mettono nero su bianco l’attualità della mafia, quella mafia che è tale perché non è fatta solo di coppole e lupare, ma è fatta di tante altre cose, di massoni, di servitori infedeli, di giudici che si fanno avvicinare, di investigatori che depistano, di giornalisti poco coraggiosi, che si sono messi il bavaglio o che se lo sono messi per convenienza o quieto vivere. E la sentenza tutto questo lo mette bene in evidenza. A Trapani la mafia resta quella che nel 1988 veniva raccontata dal giornalista senza tessera Mauro Rostagno, una mafia forte e inviolabile, protetta da insospettabili alleati. Questa non è una terra normale, purtroppo ce ne accorgiamo ogni giorno di più. Dove passa facile facile il messaggio che i magistrati sono, come li descrive Matteo Messina Denaro nei suoi pizzini, dei Torquemada, qui accade che spariscono le notizie semmai vengano scritte. Spariscono le condanne semmai qualcuno se ne ricordi, qui ci sono prescrizioni di reati gravi che passano per assoluzioni, è successo per il vice presidente della Regione Bartolo Pellegrino, prescritto per corruzione, sta succedendo in queste ore per il senatore Tonino D’Alì, prescritto per concorso esterno in associazione mafiosa. E’ stato difficile raccontare la mafia mentre insanguinava le strade, oggi è sicuramente ancora più impossibile non solo perché morti ammazzati non ce ne sono più ma perchè la specificità che distingue la mafia, e quella trapanese, dalle altre organizzazioni criminali, è il suo essere parte integrante di un sistema di potere in cui c’è soprattutto la politica. Qualcuno in questi giorni ha voluto dire in giro che per ricordare Mauro Rostagno le parole non servono.
E’ forse l’ultimo sgarbo alla memoria di Rostagno che proprio per avere parlato è stato ucciso. Il pericolo di oggi è quello che c’è chi vuole ricacciare nel dimenticatoio Mauro Rostagno con tutta la sentenza che ha condannato i mafiosi Virga e Mazzara e il lavoro di alcune associazioni, come fa “Ciao Mauro”, è decisamente in controtendenza e per questo ha pochi proseliti e qualche incauto detrattore. La sentenza firmata dai giudici Angelo Pellino e Samuele Corso, la requisitoria dei pm Francesco Del Bene e Gaetano Paci, le conclusioni di molti avvocati di parte civile, Miceli, Lanfranca, Rando, Crescimanno, Greco, compongono pagine che meritano di essere lette continuamente perché svelano meccanismi masso-mafiosi ancora attivi. Ce lo ha appena detto durante la sua missione trapanese la commissione nazionale antimafia che ha alzato il coperchio della pentola degli affari illeciti tra mafia, massoneria e pezzi di istituzioni. E’ di pochi giorni addietro la notizia che un pentito della ndragheta, Marcello Fondacaro, profondo conoscitore della mafia trapanese, che parlando di mafia e massoneria ha svelato che il senatore Tonino D’Alì, ex sottosegretario all’Interno tra il 2001 e il 2005, uomo potente di Forza Italia, sarebbe un massone iscritto in una loggia due volte segreta assieme all’attuale boss latitante Matteo Messina Denaro. I pm della Dda di Palermo se ne stanno occupando. Noi siamo dell’idea che il silenzio alimenta le mafie, le parole possono sconfiggere i mafiosi, e come diceva Mauro Rostagno un giornalismo silente non deve essere mai quello preferito.
Tratto da: articolo21.org