di Enza Galluccio
Bernardo Provenzano muore nell'ospedale San Paolo di Milano portando con sé un pezzo di verità di cui, forse, non avrebbe mai parlato. Tuttavia il dubbio è lecito visto che qualche anno fa, di fronte alla richiesta di disponibilità a collaborare posta sia da Sonia Alfano che dai pm Ingroia (oggi avvocato) e De Francisci, aveva elargito frasi del tipo “...è fattibile” e “al momento non posso”.
Poi le misteriose cadute, gli improbabili tentativi di suicidio e l'esclusione dai processi per incapacità di dire cose di senso compiuto. Quindi nessuna testimonianza diretta.
Con lui sono rimasti fino all'ultimo i figli e la moglie; dalla Procura di Milano non si sa nulla di più, tranne che è stata disposta l'autopsia.
La famiglia potrà poi accompagnare la salma al cimitero di Corleone ma in forma privata per ragioni di sicurezza, nulla di etico.
Dunque nessun funerale pubblico, nessuna data e nessuna certezza, di conseguenza non sarà possibile guardare in faccia presenti e assenti. Perché in certi casi gli assenti contano eccome.
Non sarà nemmeno possibile importunare qualcuno con qualche domanda destinata probabilmente a restare senza risposta, oppure chissà.
A volte i silenzi e le parole arrivano sempre dove devono arrivare e sono compresi solo da chi li può comprendere.
Cosa rimane dunque? Fantasticare.
La prima fantasia è cercare un perché serio alla richiesta di eseguire un'autopsia sul corpo di quell'uomo di ottantatré anni.
Non è forse possibile morire di morte naturale a quell'età? La riposta è no, se si è Bernardo Provenzano.
Inoltre, essendo stato trattenuto in carcere fino alla morte, nonostante fosse stato dichiarato incapace d'intendere e di volere, ogni dubbio va sfatato, tanto ormai nessuno potrà più replicare.
Contrariamente a quanto indicato dalla principale finalità del 41 bis, cioè quella di prevenire la possibilità per il mafioso di impartire ordini e comunicare con l'esterno, per Provenzano non è mai stata concessa la revoca, comprensibile nei casi in cui si verifica quel tipo di “decadimento intellettuale” che impedisce persino di presenziare al proprio processo.
Ma “Binnu” era anche l'ideatore, come ci ricorda Giancarlo Caselli [Il Fatto Quotidiano, 14 luglio 2016 – n.d.r.], della tecnica del “cono d'ombra”, cioè farsi percepire come limitato, con “un cervello di gallina”, un vecchio ingobbito e, al suo arresto, persino stupito di quanto gli accade intorno, quindi, apparentemente incapace di qualunque gesto violento. L'immagine ideale per far dimenticare per un po' la sua vera identità, provata dai fatti e dalla storia.
Ciò gli ha permesso per lungo tempo di mantenere il controllo della situazione, fare affari garantendosi appalti, facendo considerare blaterazione ogni ipotesi di “relazione esterna” tra la mafia, certa politica e alcune parti dello Stato.
A questo punto, continuo nelle fantasie di questo caldo luglio palermitano e concludo pensando che, o Provenzano era ancora capace di comunicare e fingeva demenza per continuare a svolgere il ruolo di capo restando nell'ombra, un ruolo che di fatto non gli apparteneva più dopo l'arresto, oppure qualcuno ha fatto sì che diventasse inerme e non potesse più dire nulla.
Nel primo caso le mezze frasi dette ai Pm e all'Alfano suonano come un ricatto volto a qualcun altro per contrattare un proprio ruolo o una nuova condizione.
Nel secondo caso, invece, quell'autopsia non solo diventa lecita ma persino doverosa.
Si sa comunque che la fantasticheria rimane tale, fino a prova contraria.
Provenzano, il cono d'ombra e l'autopsia
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