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dalla chiesa borsellino morodi Enza Galluccio
Tre valigie che contengono documenti scomparsi nel nulla. La prima apparteneva ad un noto statista della Democrazia Cristiana, Aldo Moro. Fondatore e segretario del principale partito cattolico di centro fin dal 1959. È stato più volte ministro e Presidente del Consiglio in governi di centro-sinistra. In piena strategia della tensione, tra il 1974 e il 1976, consapevole del difficile momento economico-politico che l’Italia sta attraversando, Moro è l’uomo dell’apertura a sinistra, anche a lui dobbiamo  l’idea del “compromesso storico”. Sono gli anni delle stragi, della lotta armata e degli attentati di molteplici matrici, l’ambiguità sui veri mandanti è una tra le tante questioni irrisolte squisitamente italiane.
Moro è il grande mediatore, il suo compito è quello di armonizzare realtà che appaiono inconciliabili tra loro. Il modello di riferimento è quello dell'unità antifascista dell'immediato dopoguerra, difficilmente replicabile e con forti pressioni in senso contrario degli Stati Uniti, dove Kissinger è Segretario di Stato e Nixon prima e poi Ford sono presidenti.  
Il 16 marzo del 1978, giorno della presentazione del quarto governo Andreotti, Moro viene rapito in via Fani dalle Brigate Rosse.
All’interno del governo e delle istituzioni prevale la linea della fermezza che, dopo 55 giorni di prigionia porterà alla morte dello Statista.
Quel 16 marzo, Moro aveva con sé una valigetta piena di documenti talmente interessanti da diventare l’oggetto predominante delle indagini che, sul caso Moro, si sono susseguite fino ad oggi.
La valigetta, ovviamente, scompare il giorno del sequestro, così come spariranno i “verbali” degli interrogatori subiti e le sue dichiarazioni maturate ed espresse durante la prigionia.
Moro sapeva bene di avere molti nemici, soprattutto all’interno del suo partito … L’opinione maturata nel corso delle indagini è anche quella dell’esistenza di una “intelligence alleata” ancora da identificare, incaricata di recuperare proprio quelle carte, obiettivo dominante rispetto alla liberazione dell’ostaggio che, infatti, muore.
Pare che sui contenuti di tutto questo materiale fosse giunto a conoscenza il giornalista Pecorelli, poi assassinato nel marzo del ’79.
Sempre in seguito alle indagini, si pensa che le BR furono inizialmente una “cosa ben diversa” da quello che diventarono  dopo la presenza al loro interno di Mario Moretti, figura ambigua che diede una svolta sia militare che politica al gruppo armato.
Una valutazione di questo tipo viene data anche dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa che afferma: “Io sostengo che Moretti è ancora oggi ritenuto un uomo che alle BR ha dato un contributo di prestigio, di qualità militari e politiche, molto più preparato di quanto non sembri la sua preparazione culturale documentata”.
Ma la storia è molto più lunga e intricata dello spazio che posso dedicare in queste righe, per questo preferisco focalizzare l’attenzione sui nessi che si possono cogliere all’interno delle tre vicende.
Dalla Chiesa, dopo la lotta al terrorismo, viene incaricato a Palermo in veste di Prefetto con poteri straordinari nella lotta alla mafia. Era stato però chiaro da subito, in particolare con Andreotti, al quale aveva detto: “Non avrò alcun riguardo per la parte inquinata della sua corrente”. Evidentemente dalla Chiesa sapeva già molto su quegli intrecci scellerati tra mondo politico e mondi criminali.
Anche Carlo Alberto dalla Chiesa ha una valigetta con sé quando viene ucciso a Palermo il 3 settembre del 1982 a colpi di kalashnikov. Pare che questa contenesse documenti relativi a indagini svolte personalmente dal prefetto e una lista di nomi scottanti. Pare anche che sia stata custodita da un ufficiale dei carabinieri che l’avrebbe messa al sicuro, ma la fonte di queste affermazioni è anonima e la famosa valigetta sarà ritrovata dopo 31 anni, ovviamente vuota. Condannati come “esecutori e mandanti” furono Riina, Provenzano e molti altri mafiosi.
Le indagini da parte del pm Nino Di Matteo, tuttavia, si soffermano proprio su quel messaggio anonimo che, come veniva riportato dai quotidiani, era stato denominato dallo stesso autore “Protocollo Fantasma”. Conteneva 22 punti su cui indagare. Uno di questi riguardava proprio la valigia del Generale ed il suo contenuto.
Nonostante questo, sui “mandanti altri” e sui dubbi circa il contenuto di quelle carte cala come sempre il mistero.
L’ultima valigia non è mai veramente scomparsa, semplicemente non è mai stato ritrovato il suo contenuto più importante. È l’agenda rossa del magistrato Paolo Borsellino dove, in quei  57 giorni che separano la sua morte da quella dell’amico e collega Giovanni Falcone, annotava segretamente tutto quello che aveva scoperto. Il contenuto di quelle pagine è, molto probabilmente, carico di quegli stessi intrecci scellerati tra poteri forti e mondi criminali. Come afferma Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, chi oggi ha in mano l’agenda rossa ha un potente strumento di ricatto, proprio per le verità che essa contiene.
Tre storie apparentemente separate, ma unite da un unico nesso causale, lo stesso che ancora oggi non smette di permettere scelte e azioni criminali, che odora di interessi trasversali tra Italia e altri paesi ed i loro servizi segreti. C’è puzza di accordi di sangue e sanguinari ma, anche se tutto ciò si sa e spesso ci sono anche le prove, la verità nella sua totale trasparenza, ad oggi, è ancora lontana.

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