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cutro c giuseppe cutro''Così vince la mafia''
di Anna Piscopo
Testimoni di giustizia. Cutrò, ex imprenditore e vittima del racket, scende nuovamente in piazza a Palermo per rivendicare i suoi diritti. Insieme a lui molti altri parenti delle vittime della mafia.

Bandiera dell’Italia al collo e bidone della benzina vuoto con su scritto: “In culo alla mafia. I soldi per la benzina me li deve dare il ministero per darmi fuoco”. Così si presenta qualche giorno fa a Palermo Ignazio Cutrò. Una contraddizione evidente che lascia trasparire il tormento di un uomo combattuto tra il sottile filo di fiducia nei confronti delle Istituzioni e il baratro di una vita spezzata dalla mafia. Cutrò, 49 anni, ex imprenditore e vittima del racket, ha denunciato i suoi estorsori e oggi scende in Piazza XIII Vittime a Palermo per rivendicare i suoi diritti. Ma questa volta Ignazio non è solo; con lui Vincenzo Agostino e molti altri parenti delle vittime della criminalità organizzata.

“Contro la mafia ho vinto, ma contro la burocrazia dello Stato mi sono arreso”. Parole forti, chiare, quelle di Ignazio Cutrò che accusa lo Stato di averlo abbandonato dopo che la mafia lo aveva ridotto sul lastrico. Parole di chi ha deciso da che parte stare. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente a Bivone, il paese in provincia di Agrigento nel quale Ignazio ha deciso di continuare la sua lotta alla mafia per affermare i suoi diritti e quelli di chi, come lui, è vittima della mala-burocrazia italiana. Parole che risuonano in una terra in cui ancora una volta le Istituzioni latitano, nella terra bagnata dal sangue. Quello di Falcone e Borsellino. La stessa terra che Ignazio Cutrò si ostina a non voler abbandonare “perché sono i mafiosi a dover andare via, non la gente per bene”.

Grazie alle sue testimonianze vengono arrestati, nel gennaio 2011, i fratelli Panepinto, esponenti del clan di Cosa Nostra. La collaborazione di Cutrò con la magistratura continua ma questo condiziona la sua attività imprenditoriale: non riceve più commesse e il 31 dicembre 2014 l’imprenditore dichiara il fallimento della sua azienda. Nonostante la perizia (poi in futuro si scopre che le perizie erano due), redatta dal tecnico inviato del ministero, certificasse che l’azienda non era stata chiusa a causa della crisi ma per i debiti causati dalle estorsioni mafiose e per la successiva mancanza di aiuti da parte dello Stato. Peccato che queste perizie non siano arrivate nei tempi previsti dalla burocrazia italiana per ottenere il supporto economico dello Stato. Un cane che si morde la coda. E a farne le spese sono, come in questo caso, i liberi cittadini.

Nel 2013 l’imprenditore siciliano fonda l’Associazione nazionale Testimoni di giustizia di cui è presidente e, sempre nello stesso anno, accogliendo la proposta portata avanti dall’Associazione, il Governo Letta ha approvato un decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione, come avveniva fino ad allora per le vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.

Nell’ottobre 2015, Ignazio Cutrò viene assunto presso l’Amministrazione Regionale Siciliana e inizia la sua nuova avventura presso il Centro per l’Impiego di Bivona. Ma oggi il presidente dell’Associazione nazionale testimoni di giustizia si sente di nuovo abbandonato. Il sogno di poter fare l’imprenditore nella sua terra d’origine è stato definitivamente tradito.

Quale risonanza sta avendo la sua ennesima azione di denuncia?
C’è un silenzio assoluto da parte delle Istituzioni, soprattutto locali. L’unica forma di sostegno è stata manifestata dai Cinque Stelle regionale e di Agrigento e dal gruppo Pd dell’Emilia. Inoltre, è grazie alla presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, e al deputato Pd e componente della Commissione antimafia, Davide Mattiello, che si è fatta luce su questa vicenda.

Quali sono stati i momenti più difficili della sua battaglia?
Ricordo benissimo quando sono stato chiamato dal magistrato della dda che ha seguito il mio processo, e nella stanza che era stata di Paolo Borsellino, mi disse che io e la mia famiglia saremmo entrati nel programma di protezione e avremmo dovuto lasciare la nostra terra. Mentre andavo via, sull’uscio della porta, mi sono voltato e gli ho chiesto che senso avesse avuto il mio sacrificio, se non avessimo perso entrambi la nostra battaglia contro la mafia, cioè io come imprenditore e lui come rappresentante delle forze della magistratura. Mi guardò senza dire una parola. Poi le cose sono andate avanti.

Le difficoltà economiche si sono fatte sentire sempre di più.
Si. Per gli imprenditori che denunciano il racket la legge 44/1999 prevede tre sospensioni delle istanze di pagamento e un mutuo agevolato. Inoltre, due perizie del ministero dell’Interno del 2011-ritrovate “solo oggi”- prevedevano aiuti economici che però non sono mai arrivati. Ho provato con tutte le mie forze a far ripartire la mia azienda. E pensare che i primi a bussare alla mia porta sono stati gli stessi organi dello Stato. La mia azienda non ha chiuso per colpa della mafia, ma della burocrazia dello Stato che è peggio dei mafiosi.

Cosa chiede oggi allo Stato?
Io chiedo che lo Stato dia un segnale forte e che sia accanto a chi denuncia. Quello che invece dico agli imprenditori è di continuare a denunciare. Io ho scelto da che parte stare.

Ha mai avuto paura di ritorsioni?
Per me chi ha paura non è un uomo. La paura non significa mettere la testa sotto la terra come fanno gli struzzi. La paura ti fa sopravvivere, ti aiuta ogni giorno a lottare.

Dal suo sito internet invita gli imprenditori vittime di estorsioni ad avere fiducia nelle Istituzioni. Lei ha ancora fiducia?
Dobbiamo avere fiducia nelle Istituzioni. Infatti in piazza a Palermo sono arrivato con una bandiera dell’Italia sulle spalle. Come Associazione nazionale testimoni di giustizia siamo un sindacato e cerchiamo di salvare i nostri fratelli, anche se il ministero dell’Interno non ci ha concesso neppure una sede. Ai politici dico: basta con le passerelle, facciamo cose concrete.

Tratto da: mediapolitika.com

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