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diffamazione fumettodi Marilù Mastrogiovanni
Le storie delle giornaliste minacciate si assomigliano tutte. C’è una violenza di genere dedicata solo a noi. Perché non solo non ci perdonano di scrivere, di non girarci dall’altra parte davanti ad un fatto, di esercitare il nostro diritto-dovere di cronaca e di critica. No, non è solo questo. Non ci perdonano due volte: perché siamo giornaliste e perché siamo donne.
Che sia una donna a far uscire una notizia, è un affronto in più, per chi è oggetto delle nostre inchieste.
Così le minacce, le intimidazioni, si arricchiscono di una connotazione sessista: non solo querele temerarie, a raffica, vero e proprio stalking giudiziario, ma insulti on line, rabbia schiumante perché ad aver parlato è stata una donna, che si cerca di delegittimare in mille modi, tutti afferenti all’area sessuale, e della sua identità. Nella migliore delle ipotesi la giornalista che fa inchieste è superficiale e incompetente, oppure fa inchieste ma in modo scandalistico (le offese cercano così di ricondurre sempre la sua scrittura ad un raggio d’azione considerato femminile: il gossip). Ovviamente è pronta a vendersi per uno scoop, a chiunque. La giornalista che fa inchiesta se la fa con magistrati, poliziotti, mafiosi, parenti dei mafiosi.

Alla violenza del “linguaggio dell’odio” (hate speech) soprattutto sui social network, si aggiunge quella crescente delle “querele temerarie”, cioè un’azione fatta con l’apparente finalità di tutelare un diritto (quello del querelante di non essere diffamato), ma in realtà con l’obiettivo di intimidire se non “bloccare” l’attività del giornalista, soprattutto se questo non ha le capacità economiche di sopportare i costi. Le querele temerarie o “pretestuose”, sono “un indebito atto di pressione, pur avendo un’esteriore apparenza di legalità, in quanto formulata non con l’intenzione di esercitare un diritto ma con lo scopo di coartare l’altrui volontà e conseguire risultati non conformi a giustizia”.
Le parole non sono mie, ma del Giudice Sergio Tosi del Tribunale di Lecce, che m’ha assolta in primo grado, e su richiesta del pm, dall’accusa di diffamazione, assoluzione confermata in appello. Il processo è durato 9 anni di calvario e continua in sede civile, per l’assurdità del nostro ordinamento. Ma c’è stato chi m’ha querelato perché scrivevo di abusi edilizi su una grotta tutelata della legge, sostenendo che la grotta non esistesse; o chi, sebbene fossero in affari con il proprio padre e suocero, boss della sacra corona unita al 41 bis, dicevano di non conoscerlo. La settimana prima che il mio giornale “Il Tacco d’Italia fosse hackerato (e ancora oggi è fermo), 4 gip diversi avevano archiviato 4 querele: tre querele a firma di soggetti vicini alla sacra corona unita e una di Tod’s.
Ma, come ho detto, le querele come minaccia e violenza si assomigliano tutte.

Paradossali i casi di Marilena Natale, querelata per stalking dalla madre del boss camorrista “Sandokan”, che intendeva per “stalking” il continuo pubblicare notizie sugli affari sporchi di Sandokan e della famiglia. La stessa dinamica delle denunce ricevute da Ester Castano da parte del sindaco di Sedriano, poi sciolto per mafia, proprio a seguito delle inchieste di Ester. Anche nel caso di Ester Castano il sindaco considerava un persecuzione il fatto stesso che la giornalista gli rivolgesse delle domande. E ancora: Amalia De Simone, a cui l’editore Caltagirone chiede 50mila euro di danni per una condanna di risarcimento subita da un gruppo di magistrati del tribunale di Napoli; Roberta Polese, due denunce archiviate in tre anni. E’ stata difesa dal sindacato perché nel frattempo Epolis, il giornale su cui aveva pubblicato gli articoli, era fallito.

Graziella di Mambro, due volte querelata dal sindaco facente funzione Francescoantonio Faiola per articoli su speculazioni edilizie a Latina.
Sono solo alcuni dei casi su cui ci siamo confrontate il 7 marzo, nel corso dell’iniziativa #Iononstozitta, la manifestazione organizzata dalla Commissione pari opportunità della FNSI, in collaborazione con Amnesty International, Articolo 21, Cpo Usigrai, GiULiA, Gruppo di lavoro pari opportunità Ordine dei Giornalisti, Italians for Darfur, Ossigeno per l’Informazione e Rsf Italia.
Le querele temerarie indeboliscono e intimidiscono il giornalista, soprattutto se precario e free lance. Per questo è stata lanciata una raccolta firme, perché nella legge in discussione in Parlamento sia inserito un emendamento che obblighi il querelante a versare, all’atto della querela, una percentuale congrua da depositare in un Fondo che finanzi la pluralità dell’informazione. Una sorta di contrappasso. Non sono mai stata così fiera di apporre la mia firma. Eccola qui, con quella di tante altre colleghe minacciate (intendendo dunque per minacce anche le querele temerarie)!

Firmate anche voi!
Le firme sono state consegnate da Beppe Giulietti e Raffaele Lorusso alla presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini, che nel corso dell’incontro si è dichiarata disponibile per una prossima iniziativa, da promuovere in Fnsi, sui temi del linguaggio di genere e del “no hate speech”. Temi su cui è in prima linea fin dalla sua fondazione l’associazione Gi.U.Li.a giornaliste che, sotto la presidenza di Alessandra Mancuso, ora presidente della CPO-Fnsi, ha prodotto anche una guida (per i giornalisti) sul corretto utilizzo della lingua italiana, ossia sull’introduzione del linguaggio di genere. S’intitola “Donne, grammatica e media” ed è oggetto di molti nostri corsi di aggiornamento professionale per i colleghi.
Facciamo rete, dunque, riprendiamo le inchieste “scomode”, amplifichiamo la voce.
Se ci vogliono fare tacere, noi non stiamo zitte! Accettare di star zitti significa subire la più violenta delle violenze: il silenzio, cioè il tentativo di cancellare definitivamente l’identità di una persona.
(10 marzo 2016)

Tratto da: articolo21.org

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