di Lorenzo Frigerio
“Vogliamo che lo Stato sequestri e confischi tutti i beni di provenienza illecita, da quelli dei mafiosi a quelli dei corrotti. Vogliamo che i beni confiscati siano rapidamente conferiti, attraverso lo Stato e i Comuni, alla collettività per creare lavoro, scuole, servizi, sicurezza e lotta al disagio”: era questo l’incipit dell’appello con cui Libera, appena costituitasi nel 1995 come rete di associazioni, promuoveva in tutta Italia la proposta di iniziativa popolare che aveva lo scopo di rendere effettiva l’intuizione di Pio La Torre, il padre della moderna normativa antimafia.
Il coraggioso deputato aveva capito che per fare male alle cosche mafiose occorreva aggredire la fase in cui i capitali illecitamente accumulati erano ripuliti e reimpiegati. La Torre aveva pagato con la vita l’idea di colpire le mafie nel portafoglio: il 30 aprile del 1982 i killer di Cosa Nostra avevano spazzato via senza pietà lui e il suo fidato compagno di partito Rosario Di Salvo, uomo di fiducia del segretario regionale del PCI. Le misure di prevenzione patrimoniali (sequestro e confisca a carico degli indiziati di appartenere alle cosche) erano entrate in vigore, all’indomani di un altro delitto eccellente, quello del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso insieme alla moglie Emmanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo.
Raccogliendo il testimone da questi coraggiosi servitori dello Stato, Libera intendeva avviare una nuova stagione di contrasto alle mafie, utilizzando gli stessi beni confiscati alle organizzazioni per dare un segnale culturale e offrire opportunità occupazionali e sociali ai territori piagati dalle mafie e dalla loro violenza.
A camere ormai sciolte in previsione delle elezioni alle porte, il pacchetto normativo che fu confezionato da associazioni e parlamentari e sottoscritto da oltre un milione di cittadini italiani, chiamati allora a raccolta dallo slogan “La mafia restituisce il maltolto”, divenne in sede di commissione deliberante una legge dello Stato.
Il riutilizzo a fini sociali
La Legge 7 marzo 1996, n. 109 (“Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati”) introdusse nel nostro ordinamento il riutilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi, come concreta alternativa all’utilizzo da parte delle istituzioni per le normali finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile.
Con la legge 109/96 si completa il processo di elaborazione di una nuova strategia di contrasto alle cosche, partito sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso, quando, di fronte agli esiti deludenti dei primi processi alle famiglie siciliane della mafia, che si erano tenuti a Bari e Catanzaro con la motivazione dei timori per l’ordine pubblico, i magistrati e i politici più impegnati in prima fila contro le cosche, tra cui Rocco Chinnici, Cesare Terranova, Gaetano Costa e appunto La Torre, s’interrogarono sulla necessità di introdurre nuovi strumenti di contrasto allo strapotere mafioso. Fu loro chiaro come servisse innanzitutto uno strumento che consentisse di mettere a fuoco quella che fino ad allora era stata la verità negata per eccellenza: l’esistenza cioè della mafia in quanto organizzazione criminale, gerarchicamente ordinata, con regole interne, meccanismi sanzionatori e affari ramificati nei gangli della vita economica, sociale e politica del territorio italiano, in particolare in alcune regioni del Meridione.
La codificazione di queste caratteristiche trovò una sintesi nel testo della legge Rognoni-La Torre che introdusse, da un lato, l’art. 416 bis nel codice penale con la nuova previsione del reato di associazione di tipo mafioso e, dall’altro, le misure di prevenzione patrimoniale che, affiancandosi alle preesistenti misure di prevenzione personali, come il soggiorno obbligato o la sorveglianza speciale, consentono il sequestro e, nel caso non sia provata la lecita provenienza, l’eventuale confisca dei beni disposti “a carico delle persone nei cui confronti possa essere proposta una misura di prevenzione perché indiziate appartenere ad associazioni di tipo mafioso”.
Se l’utilizzo dell’articolo 416 bis c.p. da parte del pool dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, permise di istruire il primo maxiprocesso alle cosche palermitane e di portarlo con successo a compimento, i risultati sul versante delle misure patrimoniali non furono soddisfacenti e quindi sarà soltanto l’avvio di una nuova stagione d’impegno collettivo, successiva alle stragi del 1992, a consentire la piena realizzazione del disegno di aggredire i patrimoni mafiosi.
Libera Terra, una scommessa vinta
Il concetto del riutilizzo a fini sociali prima ancora che una prospettiva di ordine economico fu una scommessa di tipo culturale: si puntava cioè a dimostrare l’inutilità del gesto criminale, perché quanto era stato accumulato in danno della società, in ultima battuta tornava alla collettività, grazie all’azione dello Stato, tramite progetti di sviluppo locale e crescita economica.
Nel 2001, con la nascita in Sicilia della prima cooperativa selezionata con bando pubblico, il progetto denominato “Libera Terra” entrò finalmente nel vivo: intitolata a “Placido Rizzotto”, il sindacalista ucciso da Luciano Liggio, la nuova compagine di cooperanti iniziò la coltivazione di terreni sottratti proprio al clan dei corleonesi nell’alto Belice. E ad essa si aggiunsero negli anni successivi le altre cooperative che in Calabria, Puglia, Campania, Sicilia avviarono coltivazioni e produzioni di beni alimentari che, oggi, superano le cinquanta referenze.
Prodotti che hanno il marchio della qualità nella legalità – appunto “Libera Terra” – e che hanno raccolto consensi da parte dei consumatori e premi di varia natura, per l’elevato livello raggiunto nel corso di poco più di un decennio. Le cooperative oggi sono raccolte nel Consorzio Libera Terra Mediterraneo e sono una realtà in crescita.
Un altrettanto valido esempio, in tema di aziende confiscate, è dato invece dalla cooperativa “Calcestruzzi Ericina Libera” che ha preso in gestione il complesso aziendale sottratto alla disponibilità del boss trapanese Vincenzo Virga, continuando la produzione di calcestruzzi ma anche innovando con l’apertura di un impianto all’avanguardia per il riciclaggio di inerti.
Quello che conta è però che il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alle mafie sia cresciuto nel tempo e si sia diffuso a macchia d’olio in tutta Italia: infatti, lo scorso anno sono state censite da Libera oltre cinquecento esperienze e buone prassi nel nostro paese, dal sud al nord. Il 58% è rappresentato da associazioni, il 27% da cooperative, mentre la quota restante è in capo a comunità, fondazioni e altre personalità giuridiche.
Beni immobili, esercizi commerciali, terreni affidati a cooperative e associazioni che si stanno dimostrando volano di sviluppo territoriale e di crescita economica, producendo occasioni di riscatto per interi territori, che riescono così a liberarsi dal giogo mafioso.
Per valutarne l’impatto sociale, si consideri che nel 33% dei casi i soggetti assegnatari di beni realizzano interventi integrati nei confronti del territorio circostante e di soggetti svantaggiati ivi residenti; una quota del 16% è finalizzato a progetti di reinserimento lavorativo; un altro 16% si rivolge ai minori e un altro 14% ai diversamente abili. Le quote rimanenti riguardano attività formativa di varia natura o di supporto a vittime della violenza, migranti, anziani o persone con forme di dipendenza.
Nessun dogma
Nel corso degli ultimi anni, Libera non ha mancato di esercitare il suo ruolo di pungolo positivo nei riguardi del legislatore, a partire dall’indicazione della necessità di un unico soggetto che, superata la fase straordinaria del Commissario governativo degli esordi della legge 109, potesse farsi carico della gestione dei beni dal sequestro all’assegnazione degli stessi.
Una proposta che ha trovato una sua formulazione solo nel 2010, con la nascita dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC), istituita con decreto-legge 4 febbraio 2010, n.4 , poi convertito nella legge 31 marzo 2010, n. 50, successivamente modificata dal cosiddetto Codice antimafia, cioè il decreto legislativo n.159 del 6 settembre 2011.
Dopo alcuni anni di funzionamento sotto la direzione del Ministero dell’Interno, Libera ha proposto che oltre a qualificarne meglio la dotazione, in termini di personale e mezzi, la stessa fosse prossimamente collocata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in ragione della multidisciplinarietà richiesta nell’approccio alle questioni relative all’uso dei beni confiscati, non inquadrabili meramente in una logica di tipo repressivo.
Altre misure volte a rafforzare il disegno della legge 109 sono state avanzate da Libera, nelle diverse edizioni di Contromafie, gli stati generali dell’antimafia: dal potenziamento delle sezioni delle misure di prevenzione in ciascun tribunale alla piena attuazione dell’albo degli amministratori giudiziari, per evitare le storture evidenziate dal caso Saguto; dal supporto alle cooperative di giovani in fase di start up sui beni confiscati alla tutela dei lavoratori delle aziende sequestrate o confiscate.
Insomma da parte di Libera non vi è stata alcuna rigida tutela di presunti dogmi, né tanto meno alcuna difesa di un’assurda quanto inesistente posizione di monopolio nella gestione dei beni confiscati, incredibilmente rilanciata da articoli e libri di ultima produzione, di cui abbiamo già avuto modo di scrivere e che si commentano da soli, vista la mancanza di riferimenti nella realtà.
Nel frattempo, in oltre un decennio d’applicazione effettiva della legge 109/96, non sono mancate le reazioni da parte dei proprietari di un tempo dei beni confiscati: i mafiosi e i corrotti. Intimidazioni, minacce e attentati che hanno rallentato il percorso di riscatto e creato inciampi alle cooperative e alle associazioni. Fatti gravi che, pur nella drammaticità, però hanno accresciuto la capacità di risposta dell’intera società, dimostrandosi in molti casi un banco di prova fondamentale per la tenuta e la rinascita del tessuto sociale ed economico di un territorio.
Fatti gravi che si sono aggiunti alla crisi economica in atto e che hanno reso difficile una qualsiasi progettualità economica, già complicata in partenza da un elemento che non va dimenticato e cioè che i beni affidati alle realtà sociali, secondo quanto previsto dalla legge, restano di proprietà dello Stato e non entrano nel loro patrimonio.
I numeri della legge 109
Nel giro di vent’anni, grazie alla legge 109, numerosi progetti di riutilizzo dei beni confiscati sono andati a segno: immobili, terreni, esercizi commerciali e altro sono stati recuperati e destinati a finalità sociali, creando posti di lavoro, recuperando condizioni ambientali compromesse e diventando così il segno della vittoria di istituzioni e cittadini che, collaborando insieme, hanno ricondotto a positività quelli che erano, fino a poco tempo prima, i simboli dello sfarzo e della tracotanza espresse dalle organizzazioni mafiose.
Il volume di sequestri e confische è andato sempre più aumentando, anche se non è facile stabilire con esattezza l’esatto valore di terreni, immobili di varia natura o, a maggior ragione, di aziende.
Si consideri, infatti, come sia da registrare una fisiologica perdita di valore dei beni dal momento del sequestro alla confisca definitiva; successivamente dalla confisca alla destinazione e, per finire, all’utilizzo reale degli stessi.
Secondo gli ultimi dati disponibili offerti dall’ANBSC, gli immobili confiscati in via definitiva dal 1982 ad oggi ammontano a 23.526 unità. Di questi nemmeno la metà sono stati destinati e sono 10.056. Le criticità che rallentano il procedimento di destinazione sono legate soprattutto agli alti costi di ristrutturazione dei beni, vandalizzati in ogni modo una volta che sono tolti dalla disponibilità dei precedenti proprietari; ma pesano anche le irregolarità urbanistiche e le occupazioni irregolari da parte di familiari o terzi in buona fede.
Una situazione ancora più difficile si registra con le aziende: su un totale di 3.577 quelle che si sono salvate sono solo 830. Questo succede perché o sono scatole vuote, utilizzate per finalità di riciclaggio, oppure hanno perso ogni capacità di stare sul mercato, per l’innalzamento dei costi di gestione, per una gestione conservativa che finisce per realizzare perdite, per la revoca dei fidi concessi dalle banche oppure per il deterioramento dei rapporti con la clientela e con i fornitori. Verificandosi una di queste situazioni o più di una, è chiaro che l’unico destino ipotizzabile per queste aziende resta il fallimento e la consequenziale chiusura.
Superfluo forse ricordare che la maggior parte degli immobili e delle aziende sottratte alle mafie è concentrata in Sicilia, Calabria e Campania, ma è assolutamente interessante rilevare che la quarta posizione in questa classifica dell’illegalità è oggetto di costante contesa, a seconda degli anni e dei volumi dei beni tolti alle mafie, tra Puglia e Lombardia.
Ora le priorità sembrano essere due.
La prima è il rafforzamento delle buone prassi realizzate grazie al combinato disposto della Rognoni – La Torre e della 109/96, orientando gli interventi pubblici di natura comunitaria, nazionale e regionale al loro pieno sostegno.
La seconda è l’accompagnamento del percorso della Direttiva della Commissione Europea sulla confisca dei beni, approvata nel febbraio 2014, con la quale gli Stati membri sono invitati ad adottare misure che consentano il riutilizzo dei beni confiscati per finalità pubbliche e sociali.
Un percorso, quello europeo, accompagnato da Libera nella convinzione che se le mafie si sono globalizzate, occorre esportare la buona prassi del riutilizzo dei beni confiscati, come segno di responsabilità da parte di cittadini e associazioni nella lotta alle mafie.
L’antimafia tra fiction e realtà
Libera Terra
Tratto da: liberainformazione.org
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