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shoahPerché la Shoah fu obliata negli Stati Uniti fino al 1967?
di Marcello Faletra
Il 27 gennaio è il giorno della memoria. Si ricorda l’olocausto. Come sperare di fornire un ulteriore contributo di una qualche utilità, soprattutto in un momento in cui le vicende israelo-palestinesi degli ultimi anni sono prese a pretesto per rispolverare la furia antisemita? La confusione fra antisemitismo (pregiudizio razziale) e antisionismo (progetto politico) si tocca con mano. Eppure occorre farlo. Non trasformando il giorno della memoria in una celebrazione da calendario, ma contribuendo al lavoro di anamnesi della storia. Occorre porsi di fronte ai fatti, anche se questi, ricordandoli, estraendoli dai ripostigli del passato, messi in sicurezza dalle politiche dell’oblio, possono incrinare la percezione convenzionale della storia. Si tratta di far luce su uno strano caso di strategia dell’oblio, sul fatto cioè che questo oblio sia stato possibile e messo in atto proprio dai vincitori della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti, vale a dire i “liberatori” dalla furia nazista (il contributo dei russi che per primi arrivarono ad Auschwitz non viene quasi mai menzionato). Tuttavia sono stranamente gli stessi “eroi” che hanno attuato una politica dell’oblio della Shoah per oltre vent’anni. Far luce su questo fatto, forse, è un piccolo contributo alla memoria dei sei milioni di ebrei assassinati dai nazisti.

Perché la Shoah fu obliata negli Stati Uniti fino al 1967? Come è stato possibile oscurare un crimine del genere? Cosa c’era di più urgente da far dimenticare il progetto di sterminio totale di un popolo? Fino al 1967, anno della guerra dei sei giorni tra Israele e Egitto, nessuno negli Stati Uniti – compreso le potenti comunità ebraiche, si occupò esplicitamente della Shoah. La ragione di questo silenzio è semplice. Coloro che menzionavano l'olocausto venivano  associati al comunismo. Com’è nata questa associazione? Quali cause la determinarono? Naturalmente le cause sono molteplici. Ma, certamente, la più decisiva è stata la “guerra fredda”, che imponeva una netta divisione geopolitica del pianeta. A est la Russia a ovest gli Stati Uniti.
Pochissimi intellettuali come Hannah Arendt, Noam Chomsky, lo storico Raul Hilberg, e pochi altri, dedicarono attenzione alla tragedia degli ebrei d’Europa alla fine degli anni ‘50. Raul Hilberg, addirittura, trovò grandi difficoltà nel pubblicare il suo studio “La distruzione degli ebrei d’Europa”, divenuto in seguito una pietra miliare sull’olocausto. Il suo relatore, l’ebreo tedesco Franz Neumann, della Columbia University, scoraggiò decisamente il progetto. E alla sua uscita lo studio di Hilberg incontro soltanto aspre critiche. L’importanza dello studio di Hilberg fu subito chiaro ad Hannah Arendt, la quale se ne servi per il suo celebre resoconto sul processo Eichmann “La banalità del male”. Le  vicende che accompagnarono la pubblicazione del libro della Arendt sono significative per capire il contesto nel quale gli ebrei americani per un lungo periodo non si occuparono della Shoah. Ma il libro della Arendt all’improvviso fu come una doccia fredda. In alcuni passaggi del libro la Arendt descriveva come alcuni ebrei fossero stati costretti a collaborare con i nazisti nelle deportazioni. Tanto che negli anni ’60 la Anti-Defamation League dell’associazione B’nai B’rith (ADL) – una delle più rappresentative comunità ebraiche americane - mise in atto una campagna di denigrazione contro la Arendt, perché aveva denunciato la “colpevole passività” di alcuni capi ebraici con i nazisti1.
Nel 1961 la rivista “Commentary” organizzava un convegno sul tema “L’ebraismo e i giovani intellettuali”; su trentuno partecipanti soltanto due accennarono al problema dell’olocausto. Nello stesso anno durante una tavola rotonda organizzata dal periodico “Judaism” (“La mia affermazione di ebraismo” era il tema conduttore) il problema fu praticamente ignorato. Occorre chiedersi perché? Perché gli ebrei americani tenevano lontano dalle loro questioni ciò che era accaduto nei lager nazisti? Com’era possibile ignorare una questione cosi bruciante da tutti i punti di vista? E, soprattutto, una questione che riguardava proprio gli ebrei? A distanza di oltre mezzo secolo, possiamo vedere che una della ragioni di questo silenzio era costituito dal conformismo della leadership della comunità ebraica americana e al clima politico che si era determinato con la guerra fredda. Con gli accordi di Yalta e la conseguente spartizione geografica del mondo, la Germania Federale era diventata una importante alleata degli Stati Uniti, in sostanza era l’avamposto estremo occidentale di fronte al blocco dell’est dominato dalla Russia di Stalin prima e di Krushov dopo. Porre la questione della Shoah, dunque, non era producente, dal punto di vista geo-politico e della strategia delle alleanze. E’ questa, una delle ragioni per cui molti assassini delle SS trovarono facilitata la fuga presso il Sudamerica, soprattutto in Argentina, dove le dittature erano direttamente appoggiate dagli Stati Uniti. Alla luce dei blocchi geopolitici est/ovest molti intellettuali ebrei trovarono difficoltà a schierarsi contro l’Unione Sovietica che con i sui 29 milioni di morti sfiancò letteralmente la linea est dei nazisti contribuendo in modo decisivo al crollo militare del nazismo.
Cosi, paradossalmente, la questione della Shoah, si è trovata in mezzo  fra le ambiguità di Stalin (che pure contribuì in modo determinante alla creazione dello stato di Israele) e l’indifferenza degli americani a cui premeva avere la Germania Federale come alleata. E, forse, non tutti sanno che la seconda costituzione russa rivista da Stalin nel 1936 conferma quella del 1918 voluta da Lenin, dichiarando l’antisemitismo crimine contro lo stato. Mentre gli Stati Uniti per fortificare la loro presenza in Europa misero in secondo piano il problema dell’olocausto. Nello stesso tempo la politica americana fu abile nell’associare lo stereotipo “ebreo di sinistra” al comunismo stalinista e perseguire di antiamericanismo chiunque si mostrasse sensibile alla Shoah, perché tale sensibilità era  praticata soprattutto da intellettuali di sinistra. Il semplice ricordare l’olocausto nazista veniva etichettato come “comunista”. L’anticomunismo radicale dell’establishment politico americano creò scompiglio nelle comunità ebraiche, le cui élite però si allinearono subito all’anticomunismo scatenato da McCarthy durante il decennio 1947/1957, e la cui “lista nera” fu rimpinguata dalla collaborazione dell’ADL e dell’AJC (American Jewish Committee) che misero a disposizione i loro schedari, onde poter fornire i nomi di coloro che erano in odore di “comunismo”.
Naturalmente non fu semplice per molti altri ebrei artisti e intellettuali. Il grande studioso di psicologia dell’arte Rudolf Arnheim, per esempio, dovette nascondere per lunghi anni le sue idee anarchiche; lo stesso fece il pittore Barnett Newman, il quale già prima dello scoppio della guerra apprese lo yiddish perché era l’unica lingua incomprensibile ai servizi segreti americani e dove le idee politiche potevano circolare senza conseguenze. La paura di essere associati al comunismo, di essere perseguitati fino alla carcerazione e a volte fino all’eliminazione fisica, costrinse molti ebrei a evitare di collaborare con le forze politiche socialdemocratiche e antinaziste tedesche. Molti si astennero dal partecipare alle manifestazioni contro gli ex nazisti che trovarono rifugio in America. Un clima da caccia alle streghe, che da Hollywood – dove si fabbricava l’immaginario dell’eroe anticomunista - arrivava agli scrittori e ai sindacalisti, spesso assassinati in oscure circostanze. La priorità della guerra fredda aveva di fatto cancellato, fino alla “guerra dei sei giorni” (1967) lo sconvolgente fenomeno dello sterminio degli ebrei d’Europa.

1 -  E interessante notare che la Arendt si serve dello studio di Raul Hilberg (La distruzione degli ebrei d’Europa) per confermare la tesi della “collaborazione” di alcuni capi ebraici con i nazisti, dunque non degli ebrei in generale. Ecco uno dei passi significativi: “”Ad Amsterdam come a Varsavia, a Berlino come a Budapest, i funzionari ebrei erano incaricati di compilare le liste delle persone da deportare e dei loro bene, di sottrarre ai deportati il denaro per pagare le spese della deportazione e dello sterminio…”; La banalità del male, Feltrinelli, 1992, p. 126. La Arendt in una lettera a Gershon Scholem del 24 luglio 1964 chiarisce la sua posizione circa il problema degli ebrei collaborazionisti con queste parole: “Ho sostenuto [ne La banalità del male] che non esisteva alcuna possibilità di opposizione, ma esisteva la possibilità di non fare nulla, e per non fare nulla non c’era bisogno di essere santi…Queste persone avevano una certa libertà di decisione e di azione, per quanto limitata…Poiché in politica abbiamo la che fare con uomini, e non con eroi o santi, esiste la possibilità di ‘non-partecipazione’”. (Ebraismo e modernità, Feltrinelli, 1993, p. 225.) Sulle ostilità contro Hannah Arendt è illuminante la lettera che scrisse a Karl Jaspers datata 20 ottobre 1963, ne riporto un frammento significativo: “Il mio successo alla Columbia University è stato una vittoria di Pirro, poiché ha indotto il governo israeliano e le organizzazioni ebraiche da esso pilotate ad una sola reazione: a raddoppiare i loro sforzi. Così proprio ora, per rendermi la vita impossibile anche nel mondo accademico, hanno spedito qui da Gerusalemme, come inviato speciale, Ernst Simon, il quale sta compiendo una missione itinerante nelle varie università per parlare contro di me dovunque vi siano centri della Hillel-Organization – una lega di studenti ebraici diffusa in tutte le università e nella maggior parte dei colleges, guidata da rabbini…Qualche settimana prima del nuovo anno accademico la Anti-Defamation League ha inviato una lettera circolare a tutti i rabbini degli Stati Uniti con l’invito a tenere prediche contro di me.”

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